C'è una serie di psichiatri (degli psicologhi e psicologhe meglio non parlarne
perché queste figure quando contano qualcosa nel pubblico, spesso sono devastanti e lo dico con cognizione di causa e posso citare almeno 100 casi, tutti ben documentati, in cui gli errori madornali di valutazione sono stati devastanti per gli esiti di vita e legali), che nel mio piccolo mondo individuo come "Quelli della Sinistra", che in realtà, sono tipiche figure della sinistra al caviale ormai ben conosciuta da me da almeno 40 anni, da me che sono stato un militante strumentale di Lotta Continua e solo per essere stato strumento, me ne pento e grido VENDETTA!!! Vero professori e giornalisti direttori vari, senza fare elenchi delle star televisive e mediatiche, pseudo-culturali, il cui prototipo potrei dire è Gianpiero Mughini (non che sia il peggio, solo un esempio migliore)?
Inizio con la prima strar, una superstar della psichiatria militante e civica, impegnata, (engagée), fino ad assumere veri e propri ruoli politici ed amministrativi, lo psichiatra romano Luigi Cancrini, di cui copio e incollo il curricolo:
LUIGI CANCRINI
Curriculum della attività scientifica e didattica
Attività didattica
1. Laurea in Medicina e Chirurgia con una tesi svolta presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università “La Sapienza” di Roma dopo due anni di internato nel luglio 1963.
2. Specializzazione in Clinica delle Malattie Nervose e Mentali.
3. Libero docente in psichiatria dal 3 giugno 1971
4. Assistente straordinario e poi ordinario di Clinica Psichiatrica presso l’Istituto di Psichiatria dell’Università “La Sapienza” di Roma dall’aprile 1971 al giugno 1983.
5. Professore incaricato di Psicologia Clinica e di Psichiatria presso il Corso di Laurea in Psicologia, Facoltà di Magistero dall’anno accademico 1974/75 al 1982/83.
6. Professore associato di Clinica Psichiatrica e titolare dell’insegnamento di Clinica Psichiatrica e di Psicoterapia per gli studenti del Corso di Laurea in Medicina III Canale della stessa Università dal giugno 1983 al dicembre 1995.
7. Docente di Psicoterapia nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria Università “La Sapienza” di Roma dal momento della sua istituzione (anno accademico 1969/70) al dicembre 1995.
8. Ha partecipato con seminari e lezioni, sulla Psicoterapia, su invito dei responsabili alle attività didattiche svolte presso le Scuole di Specializzazione in Psichiatria di Rochester e Chicago (USA), Oslo e Tromso (Norvegia), Bilbao e Barcellona (Spagna), Buenos Aires (Argentina), Grenoble e Chambery (Francia), Neuchatel Losanna (Svizzera), Padova, Pavia, Genova, Lecce, Bari, Napoli, Catania, Milano.
9. E’ didatta di Terapia Familiare presso il Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale in Roma dal 1970. Il Centro ha ottenuto il riconoscimento dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica come scuola di psicoterapia nel settembre 1992. Dirige tale Centro dal 1972 ad oggi.
Ha fondato e presieduto dal 1988 al 1990 la Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale.
10.Ha ideato e diretto su richiesta del Governo Basco un programma (quadriennale 1983/1986) di formazione psicoterapeutica degli operatori impegnati nel settore alcool e tossicodipendenza di Bilbao.
11.Ha ideato e diretto nel 1991 su richiesta della Municipalità di Barcellona un programma triennale di formazione psicoterapeutica per gli operatori dei servizi sociali di base.
12.Ha ideato e diretto, in quanto esperto designato da quella Amministrazione, dal 1989 al 1992, il Progetto Prevenzione e Terapia delle Tossicodipendenze alla città di Palermo.
13.E’ direttore scientifico delle Comunità Terapeutiche di Saman dal gennaio 1996.
14.E’ responsabile Scientifico del Centro di Aiuto per il Bambino Maltrattato e la sua Famiglia del Comune di Roma dal febbraio 1998.
15.E’ stato scelto come esperto dal Parlamento Europeo per il Consiglio di Amministrazione dell’EMCDDA di Lisbona dove ha operato dal 1997 al 2000.
16.E’ stato nominato, nel gennaio 2000, Presidente del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Italiano Droga e Tossicodipendenza.
17.E’ stato designato nel dicembre 2000 come membro della Commissione Nazionale AIDS del Ministero della Sanità.
18. Nel 2004 ha ricevuto dall’Europian Family Therapy Association (EFTA) l’Award for Outstanding Contribution to the Field of Family Therapy.
Attività scientifica e di ricerca
1. Ha partecipato fin dal 1960, ed ininterrottamente fino ad oggi, alle attività di ricerca della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali (direttore prof. Guido Gozzano), dell’Istituto di Psichiatria (direttore prof. G.C. Reda) e del Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica (direttore prof. R. Lazzari) dell’Università “La Sapienza” di Roma.
2. Ha pubblicato 19 libri di cui quattro tradotti in altre lingue, 80 lavori in lingua italiana, 20 lavori su riviste e raccolte di saggi stranieri.
3. Ha diretto (1967/70) una ricerca sui Fattori Familiari e Sociali della Farmacodipendenza fra i giovani, finanziati dalla Fondazione Agnelli il cui resoconto è stato pubblicato dall’Editore Mondadori nel 1973.
4. Ha diretto (1973) un progetto di ricerca internazionale sull’Alcoolismo finanziato dalla Fondazione Agnelli alla base di numerose pubblicazioni e di un Convegno Internazionale sull’Alcoolismo tenuto a Roma, presso l’Università nel 1974.
5. Ha diretto (1976/1981) l’Unità Operativa “Intervento sulla crisi” insidiata presso l’Istituto di Psichiatria dell’Università di Roma, dal Consiglio Nazionale delle Ricerche nell’ambito del progetto quinquennale di ricerca sulla Psichiatria; la pubblicazione dei risultati (vedi elenco pubblicazioni) è stata curata dallo stesso Consiglio Nazionale delle Ricerche.
6. Ha diretto (1983/1988) l’Unità Operativa “Valutazione a medio e lungo termine dell’efficacia degli interventi” su richiesta presso l’Istituto di Psichiatria dal Consiglio Nazionale delle Ricerche nell’ambito del progetto quinquennale di ricerca sulle tossicomanie. La pubblicazione dei risultati (vedi elenco delle pubblicazioni) è stata curata dallo stesso Consiglio Nazionale delle Ricerche.
7. Ha collaborato (1979/1980), in quanto esperto designato dall’ONU, alla ricerca sulla diffusione delle tossicodipendenze in Grecia, Spagna, Portogallo e Turchia predisponendo una relazione discussa al Convegno ONU di Lisbona (settembre 1980, vedi elenco delle pubblicazioni) finalizzata al contenimento precoce del problema droga in quei paesi.
8. Ha collaborato (1980-1983) con l’O.C.D.E. di Parigi, in quanto esperto designato dalla medesima organizzazione e dal Governo Italiano ad una ricerca internazionale degli handicappati nella scuola dell’obbligo.
9. Ha curato per conto del LABOS di Roma (1966) un progetto di ricerca dedicato ai servizi per tossicodipendenti in Europa all’interno di un programma finanziato dal Governo Italiano su: “Tossicodipendenze: i flussi informativi in Europa”. I risultati della ricerca sono stati pubblicati (vedi elenco pubblicazioni) a cura del LABOS.
10. Dirige e cura, dal 1986 ad oggi, la rivista scientifica “Ecologia della Mente”.
11. Ha curato, dal 1982 e fino al 1994, la collana Strumenti e Manuali dedicata alla Psichiatria ed alla Psicoterapia della Nuova Italia Scientifica di Roma.
12. E’ direttore scientifico della rivista scientifica ITACA per gli operatori attivi nelle tossicodipendenze.
13. Ha svolto attività clinica presso ambulatori e reparti psichiatrici dell’Università “La Sapienza” di Roma in qualità di medico volontario dal 1964 al 1966, di medico a contratto fino al 1971, di assistente fino al 1976, di aiuto fino al 1990. Ha diretto dal 1990 al dicembre 1995 il Servizio di Terapia Familiare e Tossicodipendenze presso il Dipartimento di Scienze Psichiatriche e Medicina Psicologica nell’ambito della Convenzione Regione-Lazio, Università “La Sapienza” di Roma.
Elenco pubblicazioni - Libri
1) Schizofrenia: dalla personalità alla malattia, collab. Ciani N., Il Pensiero Scientifico Editore, 1969; ristampa 1984.
2) Droga: chi come e perché e soprattutto che fare, collab. M. Malagoli T. e G. P. Meucci) ed. Sansoni, Firenze, 1973.
3) Esperienza di una ricerca sulle tossicomanie giovanili in Italia; Mondadori 1974, ristampa 1984.
4) Bambini diversi a scuola; Boringhieri 1974, 8 ristampe; seconda edizione 1989.
5) Verso una teoria della schizofrenia; Boringhieri, 1975.
6) Psichiatria e rapporti sociali, collab. Malagoli Togliatti; Editori Riuniti 1976, traduzione in spagnolo 1980.
7) Tossicomanie; Editori Riuniti 1980; traduzione in greco 1982.
8) Guida alla psicoterapia; Editori Riuniti, 1982.
9) Quei temerari sulle macchine volanti; Nuova Italia Scientifica 1982; traduzione in spagnolo 1991.
10) La guarigione nelle tossicomanie giovanili, collab. Mazzoni S., Costantini D., Il Pensiero Scientifico Editore, 1984.
11) Quattro prove per l’insegnamento della psicoterapia, Nuova Italia Scientifica, 1984.
12) L’intervento psicologico nella scuola, collab. E. Guida, Nuova Italia Scientifica, 1986.
13) La psicoterapia: grammatica e sintassi; Nuova Italia Scientifica, 1987; traduzione in spagnolo 1990, traduzione in francese 1992.
14) Il vaso di Pandora; Manuale di Psichiatria e Psicoterapia, collab. La Rosa C., Nuova Italia Scientifica, Roma, 1992.
15) W Palermo viva, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993.
16) Date parole al dolore, Frassinelli, Milano, 1996.
17) Lezioni di psicopatologia, Boringhieri, Torino, 1997.
18) La luna nel pozzo, Raffaello Cortina, Milano, 1999.
19) Schiavo delle mie brame, Frassinelli, Milano, 2003
20) L'oceano borderline - Racconti di viaggio, Cortina, Milano, 2006
Ha pubblicato inoltre più di 100 lavori originali sulle principali riviste italiane e straniere in tema di psicopatologia e tossicodipendenze.
Mi permetto, per quanto vale, assieme ad amici di Pisa, di asserire che tutti, tutti i 100 lavori del Docente, e libero docente, professor Cancrini Luigi, sono ad impatto ZERO nel mondo scientifico e nel panorama internazionale della psichiatria. Forse è anche a motivo della sua specificità di studi (forse, perché lo troviamo anche nelle perizie per casi di violenza eccetera), delle tossicodipendenze, che il Cancrini è direttore scientifico, almeno lo era, salvo modifiche, della ben nota Associazione siciliana Comunità SAMAN di Mauro Rostagno e del sodale ed amico Cardella, di cui rimando a molti post di cui ci siamo occupati negli anni, tra cui_____________ http://liberameditazione.blogspot.it/2013/01/francesco-cardella-mauro-rostagno-gli.html
Comunque definirei la posizione psichiatrica e scientifica del cancrini, una tipica posizione di confusione tra ideali politici e sociali e aspetti scientifici e para scientifici, una commistione assai insidiosa per l'estrema eterogeneità dei percorsi formativi e degli aspetti in cui si esercita la specializzazione (dalla tossicomania alla socio psichiatria alla diffusione scientifica e mediatica , e infine all'azioone politica diretta, tramite elezione a parlamentarte e consulente scientifico e non di associazioni di riferimento tipicamente politico).
Comunque definirei la posizione psichiatrica e scientifica del cancrini, una tipica posizione di confusione tra ideali politici e sociali e aspetti scientifici e para scientifici, una commistione assai insidiosa per l'estrema eterogeneità dei percorsi formativi e degli aspetti in cui si esercita la specializzazione (dalla tossicomania alla socio psichiatria alla diffusione scientifica e mediatica , e infine all'azioone politica diretta, tramite elezione a parlamentarte e consulente scientifico e non di associazioni di riferimento tipicamente politico).
MASSIMO FAGIOLI
Ovvero la posizione Schizzo-paranoidea in psichiatria. Potrei dire, La Psichiatria Schizzo.paranoidea di M. Fagioli (per ricordare il mito al femminile di certo ciarpame pseudo scientifico, e di cui non faccio il nome).
Del professor Massimo Fagioli, vero professore, con tanto di esame di abilitazione, come da costituzione, non riporto curricolo anche perché non lo trovo, ma rinvio direttamente a un articolo di ormai molti anni fa, dedicato al Fagioli e ai suoi metodi del fare psichiatrico. A titolo di curiosità, anche il Fagioli trova da criticare la posizione scientifica di chi è omosessuale e peggio, transessuale, come il Prof. Bruno, con cui è noto il mio alterco pubblico, di cui mi scuso con gli astanti ma proprio non ne potevo più).
Di Fagioli mi hanno detto che reputa schizzo-paranoide la situazione di un Vendola, in quanto, comunista, omosessuale e per giunta cattolico. Se Fagioli un giorno andrà in America troverà molti ebrei wasp e altra gente del progressismo di alto bordo, sempre di cultura wasp, che prenderanno tale affermazione per quella proveniente da un pazzoide cavernicolo, escudendolo dalla loro cerchia di amici, ricchi e grassi commercianti e artisti (molti anche gay-lesbo). Per inciso, proprio oggi, 26 Giugno 2013, la Corte Suprema americana ha stabilito che l'uguaglianza tra cittadini si realizza anche nel libero rapporto di matrimonio, abolendo la vergognosa legge fatta approvare da Clinton, il macho dei falsi progressisti americani. Pensate alla Cost. italica: Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge e anche sostanzialmente: ma allora, con quale trucco si è impedito il libero stabilirsi di rapporti tra di essi (tra tutti dicco)?
Evidentemente, questi killers delle libertà non sono capaci che di roboanti dichiarazioni, poi, solo comportamenti da fascistelli della parrocchietta....
E' vero che se aspettiamo i sanbabilini a veder liberalizzare i matrimoni omo, si aspetterebbe tanto, ma non meno ad attendere quelli che entrano ed escono dalle sedi delle Camere del lavoro, per poi andare in chiesa alla domenica...
Purtroppo in Europa e in Italica mancano persone come gli ebrei wasp che dominano il mondo finanziario e culturale come in America: quella è gente che quanto a diritti civili non scherza, li conosciamo bene.
Due articoli de Il Messaggero, che datano al 1977, capite? E notate che le questioni, le proposte, le risposte, le certezze del Fagioli e fagiolini, erano allora già ampiamente note; meno gli effetti della cura del metodo Fagioli, se ne esiste uno almeno da considerare scientificamente (io non lo conosco, né i miei amici pisani).
Qui potete leggervi un poco di cose:
IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Psiche e società
I giovani della Nuova Sinistra scoprono un nuovo pianeta: l'Analisi Collettiva. Un po' dovunque stanno infatti spuntando gruppi e seminari psicoterapeutici. Alcuni di questi "collettivi" hanno raggiunto dimensioni "monstre": fino a 200 partecipanti a seduta! E' un importante sintomo psico/politico. Ma qual è il suo vero senso? La riscoperta dell'anima? Un ritorno agli Esercizi spirituali? L'inizio di una fuga dalla politica?
Tutti insieme intimamente
Ecco la cronaca di una seduta
di Luigi Vaccari
Lei, sui 30, la voce concitata: "Senti Massimo, vorrei dire una cosa ai compagni. Giovedì scorso sono arrivata alle 5 e un quarto, c'era già la fila, ma io non mi ci sono messa, ho rifiutato quest'imposizione, sono entrata e mi sono seduta. Oggi sono arrivata alle 5 meno un quarto, e anche oggi c'era già la fila , e io mi sono opposta, la fila no... Sono stata violentata: " Tu non sai stare coi compagni ", mi hanno urlato. Sono stata violentata per tre quarti d'ora... Ero venuta serena, in questa settimana molte cose mi si erano chiarite, ora ho le idee di nuovo confuse... Perchè succedono queste cose? ... Queste cose non devono succedere, non possono succedere..."
Massimo, sorridente ma fermo: " Quando l'organizzazione la fanno i compagni non c'è più la sensazione di dominio".
Lei, scossa da un tremito, gli occhi di lacrime: " Allora vorrà dire che devo venire alle tre..."
Massimo "E' la stessa difficoltà di tutti" Poi, dopo una pausa, con una smorfia di compiacimento: "...E propone la nascita di un terzo seminario " .
Lei è una dei 150-200 protagonisti dell'incontro confessione che si tiene il giovedì all'Istituto di psichiatria dell'Università, al 47 di viale di Villa Massimo al Nomentano. E altrettanti ne intervengono a quello del martedì, che ha aperto un anno e mezzo fa la strada. Giovani ma anche meno giovani. Ragazzi ma anche tante ragazze. Studenti, forse del liceo forse universitari, ma anche gente che lavora. Massimo è Massimo Fagioli, uno psichiatra approdato dopo esperienze varie alla psicanalisi ufficiale e successivamente allontanatosene. I due seminari a cui si può liberamente partecipare, testimoniano un insolito tentativo di analisi collettiva, la capacità liberatoria di raccontarsi in pubblico cercando il significato di sogni che sono spesso incubi lunghi e sofferti.
L'appuntamento è in una sala al primo piano, di 40-45 metri quadrati. Il portone dell'istituto viene aperto mezz'ora prima dell'inizio di questo straordinario transfert comune. Quando tutti aspettano da tempo, pazienti. In una fila molto ordinata e poco italiana. La corsa esplode sulla breve rampa di scale che porta al luogo della riunione. Per occupare le pochissime sedie che vi si trovano, e anche i braccioli. Alcuni si sistemano su sgabelli pieghevoli, portati da casa e dall'incerto equilibrio. Altri siedono in terra, come coloro che non riescono ad entrare e restano nello stretto e breve corridoio.
L'analisi occupa due ore: dalle 18 alle 20 e dalle 10 alle 12 il martedì. L'attesa è ingannata diversamente. Chi fuma, le ragazze soprattutto. Su un cartello. "Qui è vietato fumare", qualcuno ha aggiunto fra qui ed è un "non" a lapis, e fanno da posacenere anche lattine vuote di noccioline che passano di mano. Chi legge, faticando nei movimenti: Il Manifesto, L'Espresso, Lotta Continua. Chi parla con chi gli sta accanto, e il tono è sommesso. Pochi sono tirati nei tratti del volto. Pochissimi sembrano preoccupati, anche se qualcuno fissa il vuoto.
Quando compare Massimo, molto puntuale, a fatica riesce a raggiungere la sua sedia dirimpetto alle porte della sala, spalle a una finestra che come le altre adesso viene chiusa. E c'è subito fumo . E caldo. Tanti, e tante, si sfilano i pullover. E si comincia, dopo il lamento protesta di colei che aveva rifiutato la fila, con Adele. La quale non sa, dice, se viene per una curiosità intellettuale, lei è una giornalista, o per se stessa. Ad ogni modo, dopo aver partecipato quattro volte ha fatto un sogno.
"Posso raccontarlo?" domanda.
Massimo: "se tu chiedi il permesso non vuoi avere capito niente"
Un giovane: "Io, invece, Massimo...."
Adele: "Ma lo racconto o no?"
Tutti ridono
Massimo: "sarebbe una punizione troppo grossa... Avanti, avanti".
E Adele : "Stavo su un sentierino di una montagna a San Brunello, in Calabria, con dei ragazzi che erano i miei figli e i loro amici..."
Quando ha concluso, Massimo le spiega che nel suo sogno ci sono un sacco di intuizioni ma anche di negazioni. E c'è la sua difficoltà di essere compagna. E non solo non ci sono ruoli sociali, ma neppure quelli familiari né quelli personali. E il rosso che ad un tratto appare significa le donne che ritrovano le loro mestruazioni senza sentirsi castrate.
Una ragazza sui 25, orecchini ad anello, argentina bianca e sopra una maglietta bordò col collo aperto, ricorda le difficoltà per arrivare fino al gruppo, poi, dopo l'ultimo incontro una serie di sogni: "Era morta mia madre, io dovevo verificare questa morte, andavo al cimitero ma volevo che mi accompagnassero, e mi accompagnava un ragazzo", la scena cambia: " Io abbraccio il ragazzo, ma compare mio padre e ci divide" Secondo sogno: Lei si prepara a fare l'amore , ma le vengono le mestruazioni. Terzo sogno: " Io incontro Massimo, mi dice che mi vuole parlare, anch'io gli dico che devo parlargli ma posso perdere il posto in farmacia".
Massimo interpreta così: la separazione dalla madre è possibile solo se si è in compagnia, per fare un'analisi a fondo occorre il rapporto collettivo. Poi il compito del padre: ma il ragazzo lei se lo sceglie da se... Terza proposizione: per venire al seminari o c'è il rischio del licenziamento. La realizzazione analitica, d'altra parte, non è qualcosa che può restare nel chiuso dello studio privato. Ma deve uscire fuori. E allora diventa anche un fatto politico.
Maglione grigio a giro collo, occhiali da vista chiari, folta barba, borsello, un pacchetto di MS e uno di cerini sulle ginocchia, un giovanotto racconta che se ne stava seduto fuori, sulle scale, e non poteva andare al seminario perché gli mancava l'apparecchio ortopedico, non poteva salire. Arrivavano i compagni, però, e lo portavano su loro. "Finito il seminario se ne vanno e mi lasciano li, e io dico "che stronzi" ... Mi metto carponi, si, ce la faccio. Mi vergogno un pochino ma riesco a farcela..."
E Massimo: Il tutore ortopedico... Ne può fare a meno nel momento in cui si è insieme... Ma che cos'è il tutore ortopedico? È la passività di fronte alla mammina, al papino, alla zietta, fino al governo Andreotti. Che scompare purché ci sia un lavoro collettivo.
Gli interventi si inseguono. Uno dietro l'altro. senza una sosta, una riflessione. Alle risposte di Massimo non c'è replica.
Un'altra ragazza, di cui arriva solo la voce: "Io prima andavo al martedì. Vengo al giovedì da due settimane e mi sono sentita a disagio, mi sembrava di aver abbandonato un buon lavoro... Ho sognato che stavo al seminario, ma non era in una stanza, era in strada, e c'erano alcuni che camminavano, altri che sonnecchiavano. Vedo Silvio che sonnecchia, gli do un bacio, gli dico "su dai", bacio un altro ragazzo, poi ne sveglio un terzo, sempre con un bacio, facciamo l'amore ed è un rapporto molto dolce, molto tenero...
Massimo chiarisce che il modo per non farsi abbandonare è proprio il terzo rapporto, cioè il terzo seminario, cioè aumentare il lavoro, anche in senso qualitativo.
Un altro giovanotto sui 20 dice: "Ho sognato che stavamo aspettando il seminario su una distesa erbosa, arriva un gruppo di persone, ci sono anche il miei genitori i quali vengono con noi. Ma vogliono sapere, soprattutto mia madre assume un ruolo molto interlocutrice..."
E Massimo risponde: se si fa il terzo seminario ci si può occupare anche dei genitori...
Si va avanti su questa chiave di lettura. Su questa relazione molto stretta fra sogno e seminario. Seminario come riferimento costante, fino all'ossessione o all'incubo. Seminario come abbandono ultimo e disperato. Per fuggire una solitudine assoluta e tragica. E Massimo che parla ora della paura ora ha bisogno di una sua ulteriore dilatazione, dopo che c'è già stato lo sdoppiamento. "Qui c'è una precisa richiesta: non fare il terzo seminario, sennò perdo questa possibilità di analisi che ho raggiunta", replica ad una ragazza dalla voce contratta, lo sguardo basso. Che aveva ricordato con queste parole il suo sogno: "C'era come una gara, resistere in una situazione dove l'aria era poca. Poi mi accorgo che la gente ci stava bene e dico 'andiamo più in basso'. Ci vado con un'amica e ci troviamo come in un cunicolo, come nella metropolitana a Londra. Ma io avevo la sensazione di salire, incontro un uomo nero, usciamo fuori ed è Roma..."
Il rapporto col seminario vale anche per una lei sui 28, che la notte precedente ha ripercorso due storie sentimentali, " e con il primo ragazzo parlavo pacatamente, con il secondo soffrendo molto" Per un lui sui 25, che era su una spiaggia con un amico, incontrava una suora con un cesto, nel cesto c'erano tre tartarughe, le tartarughe si infilavano nel mare, un lungo tunnel... Per un'altra lei sui 27, che perdeva un treno per una questione di minuti, ne perdeva un secondo, però riusciva ad arrivare dove doveva arrivare.
Se n'è andata un'ora, Superando braccia, gambe, teste, a mo' di slalom, il cronista guadagna con molto impegno e molto sudore il corridoio. Un ragazzotto che non s'è ancora raccontato, chiede: "quando esce l'articolo sul giornale?" Risposta: la prossima settimana. "Speriamo di non leggere stronzate". Ne hanno dette ? Ed il ragazzo sorride, con un sorriso di meraviglia e di stupore, come dire: " Ma vuoi scherzare? ".
IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Chi è il Padrone del Discorso ?
di Ruggero Guarini
Questi gruppi di "analisi collettiva", e i molti altri analoghi spuntati un po’ dappertutto in Italia, sono un grosso fenomeno psico-politico un "sintomo collettivo" che bisognerebbe decifrare. Ma chi può farlo?
Il sociologo? Costui può offrirci soltanto degli strumenti empirici, utili per misurare le dimensione esterne del fenomeno (diffusione di queste pratiche, composizione sociale dei gruppi, età media dei partecipanti, loro identità politica e così via) ma insufficienti a definire il senso.
Il politico? il suo sguardo è troppo interessato. Nel migliore dei casi, in questo fenomeno che lo prende di contropiede, egli si sforzerà di cogliere quegli elementi che gli sembreranno funzionali al suo "discorso ": se esprimerà consenso, vi avrà scorto la possibilità di riassorbirlo o di annetterselo; se emetterà un giudizio di condanna, vi avrà visto un segno per lui minaccioso, di fuga dalla politica.
Lo psicoanalista? I suoi strumenti teorici sono essenziali ma essendo egli stesso un frammento della "formazione sintomatica" che occorre decifrare, sarà troppo coinvolto nella cosa per poterne parlare col necessario distacco.
Limitiamoci dunque a porre tre elementari quesiti:
1) Un mucchio di circa duecento persone è ancora un gruppo psicoterapeutico? E se non è più questo che cosa è? Un circolo culturale? Un’associazione di mutuo soccorso? Un collettivo dedito a una nuova specie di "esercizi spirituali"?
2) Un individuo che a centinaia di pazienti riuniti intorno a lui distribuisce come noccioline manciate di interpretazioni di sogni lapsus deliri e fobie è davvero un analista? E se non lo è, che diavolo sarà? Un pedagogo? Un confessore? Un leader?
3) Qual è il rapporto fra l’identità politica dei partecipanti (quasi tutti giovani della nuova sinistra) e questo loro "bisogno" di una pratica metapolitica? Le due attività sono complementari (nel senso che l’analisi di gruppo, omogenea al "personale" e al "privato" compensa le lacune e colma i buchi lasciati aperti o prodotti dall’attività politica), o sono invece contraddittori, al punto che alla lunga una delle due pratiche sia destinata a prevalere sull’altra, magari fini a liquidarla? Detto con altre parole: questa dicotomia dello Psichico e del Politico si configura come una convivenza pacifica di domini separati o come un conflitto di dimensioni antitetiche?
Infine enunciamo qualcosa che è meno e più di un’ipotesi (è un'ovvia constatazione): oggi c’è in giro una grande domanda di Anima. Il risultato è certamente qualcosa di meno noioso della consueta Grande Chiacchiera politica, ma sarebbe ancora meglio se nelle pratiche generate da questa massiccia domanda non si riproducesse la solita dialettica dello Schiavo e del Padrone…
Insomma questi ragazzi dovrebbero un po’ interrogarsi su quelle nuove forme di "potere" che in questi loro gruppi si vanno articolando intorno a una figura che non cessa di porsi - in quanto interpretante e analizzante - come un nuovo Padrone del discorso.
Chi è questo nuovo Padrone? Un maestro di coscienza? Un genitore morale? Un altro padre politico?
Questo sarebbe il caso più derisorio: il Politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!
Psiche e società
I giovani della Nuova Sinistra scoprono un nuovo pianeta: l'Analisi Collettiva. Un po' dovunque stanno infatti spuntando gruppi e seminari psicoterapeutici. Alcuni di questi "collettivi" hanno raggiunto dimensioni "monstre": fino a 200 partecipanti a seduta! E' un importante sintomo psico/politico. Ma qual è il suo vero senso? La riscoperta dell'anima? Un ritorno agli Esercizi spirituali? L'inizio di una fuga dalla politica?
Tutti insieme intimamente
Ecco la cronaca di una seduta
di Luigi Vaccari
Lei, sui 30, la voce concitata: "Senti Massimo, vorrei dire una cosa ai compagni. Giovedì scorso sono arrivata alle 5 e un quarto, c'era già la fila, ma io non mi ci sono messa, ho rifiutato quest'imposizione, sono entrata e mi sono seduta. Oggi sono arrivata alle 5 meno un quarto, e anche oggi c'era già la fila , e io mi sono opposta, la fila no... Sono stata violentata: " Tu non sai stare coi compagni ", mi hanno urlato. Sono stata violentata per tre quarti d'ora... Ero venuta serena, in questa settimana molte cose mi si erano chiarite, ora ho le idee di nuovo confuse... Perchè succedono queste cose? ... Queste cose non devono succedere, non possono succedere..."
Massimo, sorridente ma fermo: " Quando l'organizzazione la fanno i compagni non c'è più la sensazione di dominio".
Lei, scossa da un tremito, gli occhi di lacrime: " Allora vorrà dire che devo venire alle tre..."
Massimo "E' la stessa difficoltà di tutti" Poi, dopo una pausa, con una smorfia di compiacimento: "...E propone la nascita di un terzo seminario " .
Lei è una dei 150-200 protagonisti dell'incontro confessione che si tiene il giovedì all'Istituto di psichiatria dell'Università, al 47 di viale di Villa Massimo al Nomentano. E altrettanti ne intervengono a quello del martedì, che ha aperto un anno e mezzo fa la strada. Giovani ma anche meno giovani. Ragazzi ma anche tante ragazze. Studenti, forse del liceo forse universitari, ma anche gente che lavora. Massimo è Massimo Fagioli, uno psichiatra approdato dopo esperienze varie alla psicanalisi ufficiale e successivamente allontanatosene. I due seminari a cui si può liberamente partecipare, testimoniano un insolito tentativo di analisi collettiva, la capacità liberatoria di raccontarsi in pubblico cercando il significato di sogni che sono spesso incubi lunghi e sofferti.
L'appuntamento è in una sala al primo piano, di 40-45 metri quadrati. Il portone dell'istituto viene aperto mezz'ora prima dell'inizio di questo straordinario transfert comune. Quando tutti aspettano da tempo, pazienti. In una fila molto ordinata e poco italiana. La corsa esplode sulla breve rampa di scale che porta al luogo della riunione. Per occupare le pochissime sedie che vi si trovano, e anche i braccioli. Alcuni si sistemano su sgabelli pieghevoli, portati da casa e dall'incerto equilibrio. Altri siedono in terra, come coloro che non riescono ad entrare e restano nello stretto e breve corridoio.
L'analisi occupa due ore: dalle 18 alle 20 e dalle 10 alle 12 il martedì. L'attesa è ingannata diversamente. Chi fuma, le ragazze soprattutto. Su un cartello. "Qui è vietato fumare", qualcuno ha aggiunto fra qui ed è un "non" a lapis, e fanno da posacenere anche lattine vuote di noccioline che passano di mano. Chi legge, faticando nei movimenti: Il Manifesto, L'Espresso, Lotta Continua. Chi parla con chi gli sta accanto, e il tono è sommesso. Pochi sono tirati nei tratti del volto. Pochissimi sembrano preoccupati, anche se qualcuno fissa il vuoto.
Quando compare Massimo, molto puntuale, a fatica riesce a raggiungere la sua sedia dirimpetto alle porte della sala, spalle a una finestra che come le altre adesso viene chiusa. E c'è subito fumo . E caldo. Tanti, e tante, si sfilano i pullover. E si comincia, dopo il lamento protesta di colei che aveva rifiutato la fila, con Adele. La quale non sa, dice, se viene per una curiosità intellettuale, lei è una giornalista, o per se stessa. Ad ogni modo, dopo aver partecipato quattro volte ha fatto un sogno.
"Posso raccontarlo?" domanda.
Massimo: "se tu chiedi il permesso non vuoi avere capito niente"
Un giovane: "Io, invece, Massimo...."
Adele: "Ma lo racconto o no?"
Tutti ridono
Massimo: "sarebbe una punizione troppo grossa... Avanti, avanti".
E Adele : "Stavo su un sentierino di una montagna a San Brunello, in Calabria, con dei ragazzi che erano i miei figli e i loro amici..."
Quando ha concluso, Massimo le spiega che nel suo sogno ci sono un sacco di intuizioni ma anche di negazioni. E c'è la sua difficoltà di essere compagna. E non solo non ci sono ruoli sociali, ma neppure quelli familiari né quelli personali. E il rosso che ad un tratto appare significa le donne che ritrovano le loro mestruazioni senza sentirsi castrate.
Una ragazza sui 25, orecchini ad anello, argentina bianca e sopra una maglietta bordò col collo aperto, ricorda le difficoltà per arrivare fino al gruppo, poi, dopo l'ultimo incontro una serie di sogni: "Era morta mia madre, io dovevo verificare questa morte, andavo al cimitero ma volevo che mi accompagnassero, e mi accompagnava un ragazzo", la scena cambia: " Io abbraccio il ragazzo, ma compare mio padre e ci divide" Secondo sogno: Lei si prepara a fare l'amore , ma le vengono le mestruazioni. Terzo sogno: " Io incontro Massimo, mi dice che mi vuole parlare, anch'io gli dico che devo parlargli ma posso perdere il posto in farmacia".
Massimo interpreta così: la separazione dalla madre è possibile solo se si è in compagnia, per fare un'analisi a fondo occorre il rapporto collettivo. Poi il compito del padre: ma il ragazzo lei se lo sceglie da se... Terza proposizione: per venire al seminari o c'è il rischio del licenziamento. La realizzazione analitica, d'altra parte, non è qualcosa che può restare nel chiuso dello studio privato. Ma deve uscire fuori. E allora diventa anche un fatto politico.
Maglione grigio a giro collo, occhiali da vista chiari, folta barba, borsello, un pacchetto di MS e uno di cerini sulle ginocchia, un giovanotto racconta che se ne stava seduto fuori, sulle scale, e non poteva andare al seminario perché gli mancava l'apparecchio ortopedico, non poteva salire. Arrivavano i compagni, però, e lo portavano su loro. "Finito il seminario se ne vanno e mi lasciano li, e io dico "che stronzi" ... Mi metto carponi, si, ce la faccio. Mi vergogno un pochino ma riesco a farcela..."
E Massimo: Il tutore ortopedico... Ne può fare a meno nel momento in cui si è insieme... Ma che cos'è il tutore ortopedico? È la passività di fronte alla mammina, al papino, alla zietta, fino al governo Andreotti. Che scompare purché ci sia un lavoro collettivo.
Gli interventi si inseguono. Uno dietro l'altro. senza una sosta, una riflessione. Alle risposte di Massimo non c'è replica.
Un'altra ragazza, di cui arriva solo la voce: "Io prima andavo al martedì. Vengo al giovedì da due settimane e mi sono sentita a disagio, mi sembrava di aver abbandonato un buon lavoro... Ho sognato che stavo al seminario, ma non era in una stanza, era in strada, e c'erano alcuni che camminavano, altri che sonnecchiavano. Vedo Silvio che sonnecchia, gli do un bacio, gli dico "su dai", bacio un altro ragazzo, poi ne sveglio un terzo, sempre con un bacio, facciamo l'amore ed è un rapporto molto dolce, molto tenero...
Massimo chiarisce che il modo per non farsi abbandonare è proprio il terzo rapporto, cioè il terzo seminario, cioè aumentare il lavoro, anche in senso qualitativo.
Un altro giovanotto sui 20 dice: "Ho sognato che stavamo aspettando il seminario su una distesa erbosa, arriva un gruppo di persone, ci sono anche il miei genitori i quali vengono con noi. Ma vogliono sapere, soprattutto mia madre assume un ruolo molto interlocutrice..."
E Massimo risponde: se si fa il terzo seminario ci si può occupare anche dei genitori...
Si va avanti su questa chiave di lettura. Su questa relazione molto stretta fra sogno e seminario. Seminario come riferimento costante, fino all'ossessione o all'incubo. Seminario come abbandono ultimo e disperato. Per fuggire una solitudine assoluta e tragica. E Massimo che parla ora della paura ora ha bisogno di una sua ulteriore dilatazione, dopo che c'è già stato lo sdoppiamento. "Qui c'è una precisa richiesta: non fare il terzo seminario, sennò perdo questa possibilità di analisi che ho raggiunta", replica ad una ragazza dalla voce contratta, lo sguardo basso. Che aveva ricordato con queste parole il suo sogno: "C'era come una gara, resistere in una situazione dove l'aria era poca. Poi mi accorgo che la gente ci stava bene e dico 'andiamo più in basso'. Ci vado con un'amica e ci troviamo come in un cunicolo, come nella metropolitana a Londra. Ma io avevo la sensazione di salire, incontro un uomo nero, usciamo fuori ed è Roma..."
Il rapporto col seminario vale anche per una lei sui 28, che la notte precedente ha ripercorso due storie sentimentali, " e con il primo ragazzo parlavo pacatamente, con il secondo soffrendo molto" Per un lui sui 25, che era su una spiaggia con un amico, incontrava una suora con un cesto, nel cesto c'erano tre tartarughe, le tartarughe si infilavano nel mare, un lungo tunnel... Per un'altra lei sui 27, che perdeva un treno per una questione di minuti, ne perdeva un secondo, però riusciva ad arrivare dove doveva arrivare.
Se n'è andata un'ora, Superando braccia, gambe, teste, a mo' di slalom, il cronista guadagna con molto impegno e molto sudore il corridoio. Un ragazzotto che non s'è ancora raccontato, chiede: "quando esce l'articolo sul giornale?" Risposta: la prossima settimana. "Speriamo di non leggere stronzate". Ne hanno dette ? Ed il ragazzo sorride, con un sorriso di meraviglia e di stupore, come dire: " Ma vuoi scherzare? ".
IL MESSAGGERO - Mercoledì 9 novembre 1977
Chi è il Padrone del Discorso ?
di Ruggero Guarini
Questi gruppi di "analisi collettiva", e i molti altri analoghi spuntati un po’ dappertutto in Italia, sono un grosso fenomeno psico-politico un "sintomo collettivo" che bisognerebbe decifrare. Ma chi può farlo?
Il sociologo? Costui può offrirci soltanto degli strumenti empirici, utili per misurare le dimensione esterne del fenomeno (diffusione di queste pratiche, composizione sociale dei gruppi, età media dei partecipanti, loro identità politica e così via) ma insufficienti a definire il senso.
Il politico? il suo sguardo è troppo interessato. Nel migliore dei casi, in questo fenomeno che lo prende di contropiede, egli si sforzerà di cogliere quegli elementi che gli sembreranno funzionali al suo "discorso ": se esprimerà consenso, vi avrà scorto la possibilità di riassorbirlo o di annetterselo; se emetterà un giudizio di condanna, vi avrà visto un segno per lui minaccioso, di fuga dalla politica.
Lo psicoanalista? I suoi strumenti teorici sono essenziali ma essendo egli stesso un frammento della "formazione sintomatica" che occorre decifrare, sarà troppo coinvolto nella cosa per poterne parlare col necessario distacco.
Limitiamoci dunque a porre tre elementari quesiti:
1) Un mucchio di circa duecento persone è ancora un gruppo psicoterapeutico? E se non è più questo che cosa è? Un circolo culturale? Un’associazione di mutuo soccorso? Un collettivo dedito a una nuova specie di "esercizi spirituali"?
2) Un individuo che a centinaia di pazienti riuniti intorno a lui distribuisce come noccioline manciate di interpretazioni di sogni lapsus deliri e fobie è davvero un analista? E se non lo è, che diavolo sarà? Un pedagogo? Un confessore? Un leader?
3) Qual è il rapporto fra l’identità politica dei partecipanti (quasi tutti giovani della nuova sinistra) e questo loro "bisogno" di una pratica metapolitica? Le due attività sono complementari (nel senso che l’analisi di gruppo, omogenea al "personale" e al "privato" compensa le lacune e colma i buchi lasciati aperti o prodotti dall’attività politica), o sono invece contraddittori, al punto che alla lunga una delle due pratiche sia destinata a prevalere sull’altra, magari fini a liquidarla? Detto con altre parole: questa dicotomia dello Psichico e del Politico si configura come una convivenza pacifica di domini separati o come un conflitto di dimensioni antitetiche?
Infine enunciamo qualcosa che è meno e più di un’ipotesi (è un'ovvia constatazione): oggi c’è in giro una grande domanda di Anima. Il risultato è certamente qualcosa di meno noioso della consueta Grande Chiacchiera politica, ma sarebbe ancora meglio se nelle pratiche generate da questa massiccia domanda non si riproducesse la solita dialettica dello Schiavo e del Padrone…
Insomma questi ragazzi dovrebbero un po’ interrogarsi su quelle nuove forme di "potere" che in questi loro gruppi si vanno articolando intorno a una figura che non cessa di porsi - in quanto interpretante e analizzante - come un nuovo Padrone del discorso.
Chi è questo nuovo Padrone? Un maestro di coscienza? Un genitore morale? Un altro padre politico?
Questo sarebbe il caso più derisorio: il Politico che rispunta, travestito da Psicomante, proprio nel luogo in cui il gregge, forse senza saperlo, progetta di abolirlo!
EUGENIO BORGNA
Premetto che probabilmente il Borgna è più una figura atipica dal pdv della collocazione politica, comunque, lo colloco all'interno di questa triade, per l'evanescenza e il socio-culturalismo della sua visione psichiatrica, al punto che a stretto rigore, per noi pisani, una simile visione non rientra affatto nella medicina scientifica, comunemente considerata, quanto in una area di confine, per quanto praticata e pensata anche da medici e psichiatri (ormai si contano sulle dita), molti dei quali hanno finito per ritrattare o abiurare, altri per finire nel silenzio delle loro non ragioni scientifiche, esclusi da ogni consesso internazionale.
Queste persone combattono battaglie perse da decenni, ad esempio contro il trattamento elettroconvulsivo, spesso richiestoci dalle stesse figure affette da depressione gravissima, e unico rimedio in grado, in questi casi, di sperare di salvarle dalla loro sorte involutiva e dal suicidio.
Per capire chi è Borgna e cosa dice, basta ascoltarlo: non è importante se interessa quello che dice, solo che mi chiedo_ ma che roba è? Si parla di psichiatria e psicopatologia, di neuroscienze e psicologia o di altra materia, pure importante ma per la quale noi non siamo né specalisti né interessati?
Insomma, Prof. Borgna, tutto andrebbe al suo posto se lei si accreditasse come filosofo o libero pensatore, ma come medico, direi proprio che non ci siamo.
Per capire chi è Borgna e cosa dice, basta ascoltarlo: non è importante se interessa quello che dice, solo che mi chiedo_ ma che roba è? Si parla di psichiatria e psicopatologia, di neuroscienze e psicologia o di altra materia, pure importante ma per la quale noi non siamo né specalisti né interessati?
Insomma, Prof. Borgna, tutto andrebbe al suo posto se lei si accreditasse come filosofo o libero pensatore, ma come medico, direi proprio che non ci siamo.
Vittorino Andreoli
Anche questa è una figura di professore di psichiatria, per quanto prestigiosa (l'unica tra le precedenti), che nella sua parabola televisiva e professionale, ha mostrato pecche notevoli, quanto ad eccessivo protagonismo, a coltivazione della propia immagine, all'abbandonarsi a valutazioni cliniche (almeno in un caso), assai discutibili, e mi riferisco alla capacità di intendere e volere di un noto caso, in cui Andreoli fu dominus psichiatrico (senza averne a mio avviso, requisiti specifici e solidi), attribuita con la giustificazione che altrimenti l'assassino non sarebbe finito in carcere (come se non esistesero misure alternative previste per tutelare la collettività): motivazione risibile e ridicola!
Poi, i libri scritti sui casi da lui esaminati come incaricato, l'assenza di studi e ricerche specifiche sulla personalità violenta e sugli Offenders, la vacuità totale di studi solidi e convalidati, dotati di credito internazionale, non solo in tale ambito ma anche in qualsiasi altro ambito medico.
Basta prendere i suoi libri, prelevandoli dagli scaffali dedicati alla giallistica e attualità: che c'entra con la medicina?
Stendiamo un velo sul professore, che tanto non vale la pena scrivere altro...
Una richiesta: studenti del prof. Andreoli, registrate qualche lezione e mettetela sul tubo, così vediamo come tratta la materia psichiatrica: è una curiosità...
Massimo Picozzi
E' la star, anzi la superstar televisiva, Professore senza che si conosca il titolo con certezza, ma lo lascia attribuire dai giornalisti, entrato in decine di casi televisivi e presentatore di programmi ad hoc, oltre che scrittore di decine di libri su casi in cui ha operato e anche esterni, diciamo, oltre che invitato a premi di letteratura gialla e noir.
Difficilmente collocabile dal pdv politico e ideologico, ma si orienta dove spira il vento: c'è un caso importante? Se me lo danno lo prendo, e lo stesso per le partecipazioni televisive: la Rai, Mediaset? Basta che me paghino!
Su questa figura, completamente mancante di studi e ricerche scientifiche, stendo veramente un velo pietoso, e lo lascio alle sue trasmissioni televisive e radiofoniche, ai suoi libri e premi e titoli accademici, di cui manca la conferma.
Direi che Massimo Picozzi è l'emblema della figura del medico e psichiatra al servizio di una causa contingente, senza ideologie o paradigmi scientifici. Non parliamo di titoli e studi e ricerche scientifiche, totalmente assenti. Insomma, il nulla che avanza dopo i precursori, elencati sopra, a vario titolo. Sempre ho trovato le perizie del Picozzi infarcite di interpretzioni direi piene di riferimenti psicoanalitici e psicologistici, un approccio che faccio fatica a comprendere, data la mia provenienza americana, fatta di statistiche e dati scientifici comparabili.
Del Professore e criminiologo per antonomasia,
FRANCESCO BRUNO, uomo anche dei servizi, nonostante il suo giuramento di Ippocrate, non parlo, non voglio finire in qualche bega legale e già ne ho corso il rischio, quando ho contrastato il professore, che rivendicava l'anormalità psichiatrica delle persone omosessuali (personalità gravemente disturbate, così le definì in mia presenza, unico altro del settore, che mi costrinse a rimettere subito che lui non può pensarla in modo differente al pensiero scientifico corrente. Delle sue personali posizioni non mi può importar de meno, dal momento che io sono a parlare di cose scientifiche e da tecnico, non ad esporre le mie personali convinzioni (non suffragate dalla ricerca e anzi, contrarie ad essa).
Dico semplicemente che non parlo di chi è stato un uomo legato ai Servizi e che espone pubblicamente una sua convinzione professionale e che la applica alla sua pratica medica, contraria alla conoscenza scientifica.
Fine.
Solo a titolo di esempio e ciascuno capisca quello che può e vuole, qui, da Micromega, dell'ultras comunista D'Arcais, la perizia del Cancrini su Padre Pio, senza natualmente averlo mai visitato, come da copione. Inutile dirvi che per uno che condivide una formazione scientifica tipo la mia, una tale perizia" è puro carnevale, o se preferite, una carnevalata, una burletta, certamente non scientifica (devo vedere il paziente e devo farlo in una visita possibilmente consenziente e in un contesto libero, non costrittivo).
LUIGI CANCRINI
Psichiatra, Psicoterapeuta, Presidente del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale.
Condivido le riflessione di straordinario rilievo espresse stamani.
Noi eravamo abituati a pensare al disturbo di personalità come a qualcosa di stabile, di statico e
invece non è così. Il disturbo di personalità è qualcosa in cui tanti di noi “entrano” ed “escono”
a periodi.
Vi propongo due riflessioni su questo tema. Una riflessione riguarda una ricerca; la principale
ricercatrice si chiama Mary Zanarini (Zanarini et al., 2010) di Boston. Si tratta di uno studio su
persone diagnosticate con disturbo borderline di personalità, durante un ricovero in una
struttura psichiatrica; è stata svolta una revisione di queste situazioni a 2, 4, 6 e più di 7 anni,
sempre con la domanda “Soddisfa ancora i criteri per il disturbo borderline di personalità?”.
Ebbene dai 2 ai 4 ai 6 e agli oltre 7 anni c’è una discesa progressiva del tasso di persone che
soddisfano ancora quei criteri: oltre i 7 anni soltanto il 25%. Badate che sono diagnosi fatte in
ambiente ospedaliero e quindi per persone che hanno richiesto un ricovero per questo loro
disturbo; pertanto, non stiamo parlando di borderline detto così come si dice “matto”, ma si
tratta di una “cosa seria”; è una diagnosi seria che tende a scomparire.
E, d’altra parte, chi ha frequentato i luoghi del potere, quante volte vediamo persone che
sembrano “normali” e poi, ad un certo punto, partono in una traiettoria psicopatologica; gli
sviluppi narcisistici del personaggio politico o dello spettacolo, e così via, sono drammatici per
chi guarda da fuori; non c’è dubbio che questo accada per un eccesso di consenso, certo su una
persona che una disposizione ce l’ha in quella direzione.
Benjamin L.S. (1996) ha riassunto bene questo aspetto, evidenziando che i disturbi narcisistici
si sviluppano, si espandono, sfondano tutto da una certa fase della vita in poi. Ecco noi
abbiamo questa grande area dei disturbi di personalità, che poi raccoglie la grandissima parte
della psicopatologia, la quale è reversibile con grande vivacità di cambiamenti nell’età
adolescenziale e con una maggiore farraginosità e lentezza, successivamente in un senso e
nell’altro, ma comunque un’area in cui si può “entrare” ed “uscire” a seconda delle circostanze
della vita. Tornando agli adolescenti, il problema è che noi non possiamo mai pensare, che ad
un certo punto individuiamo un adolescente che è patologico e che quindi viene da una
patologia e seguiterà una patologia se non viene curato; noi siamo sempre di fronte a situazioni
provvisorie, rispetto a cui i cambiamenti di contesto e i cambiamenti di situazioni
interpersonali intorno possono determinare sviluppi incredibilmente diversi rispetto al punto di
partenza. Sia detto per inciso anche per ristabilire qual è lo spazio proprio della psichiatria, che
in uno studio di Toronto (Korenblum M., 1990), quello che si vede è invece che laddove a 13 o
a 15 anni si fa diagnosi di un disturbo psicotico, lì è difficile che a 18 non lo si ritrova. Quindi
quello è un altro capitolo, un capitolo più psichiatrico in cui è chiaro che quando saremo in
grado bene di fare le diagnosi sul disturbo di personalità, invece che proprio sui sintomi che
appaiono, ne possiamo forse dimensionare meglio i programmi; perché poi uno deve ragionare
anche su ciò che può promettere a chi viene da lui e promettere a sé stesso come obiettivo del
proprio intervento ogni volta. E certo quello che sta accadendo adesso è che quello che
accomuna nella struttura è l’essere adolescente e non la diagnosi ancora. Solo che la diagnosi
vista da questo punto di vista divide le persone in tre grandi categorie: quelli che hanno un
disturbo psicotico già nell’adolescenza e che chiedono, un’attenzione, una cura, una pazienza,
una dedizione di programma abbastanza complesso e sicuramente anche un forte
coinvolgimento della famiglia; ma questo adesso lo lasciamo un attimo perdere perché è unaparte che non è centrale nel grande numero di persone di cui si è parlato oggi in tutti questi
interventi, anche se a volte spunta anche nelle situazioni del Tribunale, perché certamente la
rottura comportamentale può essere psicotica. La seconda grande categoria è quella delle
persone di cui io ripeto che “entrano” ed “escono” o “entrano” e “possono uscire” che è un
pochino più delicato all’interno di un disturbo di personalità. Vedete, noi dobbiamo avere
ormai una visione della psicopatologia dell’età evolutiva, come giustamente proponeva
Sabatello, in cui le manifestazioni dell’ “entrare” nel disturbo di personalità possono essere a
volte sintomatiche; la grande crisi, che un tempo si chiamava isterica, oppure il disturbo
ossessivo - compulsivo, ma possono essere a volte invece direttamente comportamentali. Cioè
quello che si rivela attraverso la rottura comportamentale, è un disturbo della persona, è uno
che sta male, il ragazzo che fa casino sta male. Questa è una cosa che se noi pensiamo, un
pochino ci aiuta, non è che esiste una differenza tra quello che è cattivo e deve essere
“corretto” e quello che sta male e deve essere “curato”. Una delle manifestazioni dello star
male, che anch’essa va curata, è il comportamento scorretto con tante variazioni, certamente
con tante situazioni complesse, perché sicuramente quello a cui dobbiamo stare molto attenti è
il fatto che questa scorrettezza, illogicità, incoerenza, se volete non eticità, amoralità del
comportamento sia legata ad un disturbo più interno della persona o a qualche cosa di
assimilato all’ambiente per esempio.
In una comunità per minori che, con Saman, abbiamo aperto vicino Foggia, ad Apricena, poco
tempo fa, sui primi 10 ragazzi che sono passati in questo primo anno di attività, ce ne sono
almeno due che hanno un’attività delinquenziale familiare, che sono fonte di sostentamento
criminale per famiglie immerse in una logica di un altro tipo, non rispetto a quella in cui gli
altri invece si trovano. Certamente, il problema è molto più complesso e pone problemi di
ordine vario; insomma, nella rete bisogna dare più importanza all’intervento giudiziario che a
quello psicologico interpersonale, perché è complesso fare un lavoro di terapia familiare in
rapporto con i genitori, se i genitori hanno in mente di portarlo fuori, perché poi gli “serve”.
Questo riguarda tante situazioni in cui bisogna immaginare insieme al ragazzo o ragionando
per lui e, comunque, sempre con lui, se quello di cui ha veramente bisogno è di essere portato
fuori dall’ambiente da cui proviene anche in modo definitivo. Pensate a tutte le baby prostitute
che poi chiedono aiuto, dopo essere state portate in Italia; magari non hanno nemmeno 18 anni,
ma sono un problema serio lo stesso, vanno aiutate a ricostruirsi una vita in ambienti diversi da
quello da cui provengono. Questo è uno dei temi con cui ci si confronta. Però fuori da queste
situazioni il grande problema di questi ragazzi e ragazze è quello di “trovare pace” con i loro
genitori interni, trovando anche un qualche rapporto con quelli che hanno fuori e con quelli
putativi che incontrano nelle varie comunità. Allora, il rapporto con questi ragazzi ha necessità
assoluta di due grandi principi: uno è un principio di ordine, a cui si collega il tema della
responsabilizzazione e uno è un principio di vicinanza e di ascolto che tiene conto del
turbamento profondo che loro si portano dentro. Alloro io dico che l’intervento di comunità è
un intervento continuamente anfibio, di comunità e anche fuori di comunità, in cui bisogna
avere competenze psicoterapeutiche perché sono necessarie per questo ascolto e bisogna avere,
però, anche posizioni e competenze di tipo educativo. Perché guardate, questa è un’illusione
che ho consumato anche io che faccio lo psicoterapeuta ormai da 35 anni: il ragazzo che viene
da te avendo dei comportamenti disordinati e che si lamenta e piange dei genitori, ma rispetto a
cui tu metti in opera solo l’ascolto, è un ragazzo che da te non riceve nessun aiuto. Hai voglia
ad ascoltare ed interpretare, ma non si conclude niente. Si conclude qualcosa quando accanto
all’ascolto, c’è anche la risposta che gli impone di responsabilizzarsi. La responsabilizzazione
nella comunità è un fatto fondamentale di ordine terapeutico. Io credo che sia importante
collegare queste cose a ciò che sappiamo dalla ricerca psicoterapeutica e psicoanalitica in
particolare.
Vedete, Melanie Klein (1932) insisteva molto sul fatto, che le figure parentali introiettate dai
pazienti con problemi di comportamento, di impulsività o, se volete, di antisocialità, sonofigure parentali introiettate estremamente crudeli, estremamente dure contro le quali si esprime
una ribellione continua e totalmente inutile ed autolesiva. Ma c’è uno scontro con un qualcosa
che uno si porta dentro, con una crudeltà che gli è stata inflitta. Nelle ricerche sui disturbi di
personalità, si vede che laddove sono forti le componenti antisociali, è fortissima la
trascuratezza che quel ragazzino ha subito: il neglect, dalla parola inglese, la “trascuratezza”, il
fatto che non si sono accorti delle sue esigenze di base, corrisponde all’antisocialità ed è un
genitore interno estremamente crudele e lontano quello che loro si portano dietro. Allora noi
possiamo ragionevolmente immaginare che quando arrivano in un luogo dove qualcuno li
“ferma” in un modo affettuoso, ma appunto fermo, loro si incontrano e reagiscono in tanti
modi, con un genitore che non è distante, crudele, assurdo come quello che si portano dentro.
Ma loro di questo hanno bisogno, perché al contrario con un atteggiamento troppo vicino,
comprensivo, affettuoso e basato solo su quello, non si risolve niente; perché loro tanto non si
possono fidare e il loro fidarsi passa attraverso la consuetudine con persone che danno loro un
modello di comportamento a cui loro possono appoggiarsi. E’ vero, e Sabatello lo ricordava,
che i disturbi antisociali di personalità sono quelli più difficili da trattare. Noi possiamo dire
che quote antisociali ci sono nella gran parte dei ragazzi di cui stiamo parlando, di cui abbiamo
discusso questa mattina. Più “pura” è l’antisocialità, più evidente e chiara è l’antisocialità, più
difficile è la cura perché quello che è necessario è un tempo lungo per incontrare la persona
dietro questa maschera continuamente beffarda, lontana, distante, aggressiva che fa saltare i
nervi a qualsiasi operatore con tutta la sua pazienza. Però è anche vero che non è un’impresa
impossibile, soprattutto finché sono giovani, finché sono adolescenti. Anche per un
personaggio di Romanzo Criminale di De Cataldo, arrivato a 40 anni, che ha 30 anni di carcere
da scontare, forse non è tanto facile da responsabilizzare, non è così semplice, e pertanto
bisogna immaginare un carico maggiore di difficoltà.
Anche se, guardate, io ho fatto per alcuni anni supervisione in un ospedale psichiatrico
giudiziario e posso assicurarvi che c’è molta vita anche lì ! Ma l’antisociale “puro”
difficilmente va in OPG, l’antisociale “puro” finisce magari nel 41bis e in altre di queste
situazioni tutte segnate dalla repressività. Questo è un discorso che ci porterebbe lontano, ci
porta verso la psicologia penitenziaria.
Però è certa una cosa, stiamo parlando di adolescenti; sono storie che possono essere
modificate quando si ha la possibilità di intervenire in adolescenza perché è ancora un
materiale estremamente plastico. Allora noi dobbiamo passare da una cultura della diagnosi, in
cui colui che fa diagnosi è uno che, con i raggi x della sua esperienza e cultura psicopatologica,
fotografa il disturbo di chi ha davanti e quindi dice “questo che sta così, diventerà cosà”, ad
una situazione in cui la diagnosi è una diagnosi funzionale che recita più o meno così “in
questo momento della sua vita, in questo contesto, in questa situazione, in questo equilibrio
complessivo dei suoi rapporti questa persona presenta questi tratti”, ma con tutte queste
specificazioni intorno. Dopodiché la diagnosi reale da che cosa viene fuori, dal confronto fra
questo e quello che accade a quella persona, man mano che i suoi contesti vengono cambiati
dall’azione terapeutica. Noi dobbiamo sapere che quelli che vanno cambiati sono prima i
contesti e poi la persona. La persona deve essere aiutata a vederle le situazioni di mutamento
contestuale, senza averne paura. Deve essere aiutata a fidarsi, e spesso questa è la cosa più
difficile.
Ora vedete su questo punto, ho fatto in tanti anni un’esperienza significativa soprattutto con le
comunità terapeutiche per tossicodipendenti che sono un’esperienza abbastanza straordinaria.
Con Saman, abbiamo cominciato nel ’95 e sono passati tanti anni. L’accordo che io feci con
Saman quando ho cominciato a lavorare con loro, era di affiancare agli educatori dentro
ognuna delle comunità terapeutiche degli psicoterapeuti che avevano un loro referente, in parte
io, in parte altre persone in altre città dove c’è Saman, per avere una supervisione sul loro
lavoro. Avevamo stabilito un principio, che laddove sul programma c’era differenza di idea fra
il responsabile di comunità, quindi il capo educatore, e i referenti terapeutici, quindi glipsicoterapeuti, ci fosse una mediazione fatta con me come direttore scientifico di Saman.
Avevamo stabilito, in qualche modo, una pari dignità degli psicoterapeuti con i loro
ragionamenti e degli educatori con i loro ragionamenti, che veniva appianata discutendo nelle
situazioni in cui c’era conflitto su come muoversi. Dopodiché abbiamo immaginato un
percorso dove le supervisioni venivano fatte in equipe, cioè tutti insieme da psicoterapeuti
esterni. Adesso 15 anni di lavoro sono tanti, e le risorse psicoterapeutiche degli educatori
tradizionali di Saman sono straordinarie. Loro non hanno fatto psicoterapia, non hanno fatto
una formazione psicoterapeutica, l’hanno imparata discutendo; certamente anche gli
psicoterapeuti, che hanno lavorato con loro, hanno imparato dagli educatori un numero
straordinario di cose che non sapevano. Allora che cos’è il senso di questa cosa? Il senso di
questa cosa è che responsabilizzare progressivamente una persona, mentre la si accoglie
affettuosamente è un’operazione terapeutica di grandissima potenzialità. Nella comunità
accade questo attraverso una dialettica. Perché vedete, può capitare che il responsabile di
comunità dia una punizione perché c’è stata un’infrazione comportamentale, lo psicoterapeuta
che fa, ascolta la reazione alla punizione. L’utente, il ragazzo o la ragazza, va lì e dice
“Quell’educatore mi ha dato questa punizione ingiusta, lui non capisce, non è possibile non
capisce che cos’è per me questo” e fa tutta la sua sparata. Il terapeuta accoglie, ascolta e poi
cerca di restituire un discorso in cui dice “Si, tu hai le tue regioni, ma anche lui ha le sue.
Perché poi c’è qualche cosa che è la cornice, il gruppo, lo stare insieme. Questa è una realtà a
cui in qualche modo anche tu devi riuscire a partecipare e ad andare dentro”. Vedete, si
ricostituisce una situazione di una famiglia in cui l’istanza normativa e l’istanza di
accoglimento e di ascolto possono essere alternativamente giocate di più, dall’uno o dall’altro
dei due genitori, nel rispetto delle regole che vengono date, ma nel rispetto anche del fatto che
non sempre la regola e la sanzione collegata alla regola può essere compresa; sapendo che è
molto più importante che venga compresa, che non il fatto che venga regolarmente obbedita.
Questo, secondo me, è il punto su cui si esercita oggi il principio più forte dell’azione
terapeutica in tutte queste situazioni.
La capacità degli psicoterapeuti di “comprendere” si mette al servizio dell’equipe. Voglio dire
che, alla fine, in una rete che si occupa di un minore, non è importante che ci sia lo
psicoterapeuta del minore, ci deve essere la competenza psicoterapeutica che circola
nell’equipe, che permette di prendere decisioni e posizioni che sono tali da assicurare al minore
quel livello di comprensione, di vicinanza, di sentirsi con che è fondamentale per lui. Molte
volte, secondo me, non è neppure opportuno che il minore abbia un terapeuta fuori dalla
comunità. Io penso che in molti casi quello che è importante è che lo psicoterapeuta faccia
parte dell’equipe che lavora e possa suggerire all’operatore che è più vicino al minore alcune
risposte. Insomma, che ci si trovi in termini di rete ad utilizzare le competenze e il sapere
psicoterapeutico, non a considerare la psicoterapia qualcosa che sta lì e che è uno dei pezzi del
lavoro terapeutico. Se volete, utilizzando un’immagine, la competenza terapeutica dovrebbe
essere un po’ come il sale nella minestra: senza sale non è buona la minestra, non è che uno si
mette a mangiare solo il sale, insomma non è utile mangiare separatamente la minestra e il sale.
Questo è quello che l’esperienza di questi anni mi ha insegnato.
In secondo luogo, quello che è molto importante che si riesca a capire e a riflettere bene, è che
molti degli adolescenti che arrivano al momento della comunità o del centro diurno o altro,
sono adolescenti che hanno anche una famiglia e che questa famiglia resta con i suoi modi di
muoversi, di porsi, nelle diverse situazioni di rapporto con questi adolescenti.
Melanie Klein (1932) ha scritto una cosa bellissima su questo, nella sua psicoanalisi dei
bambini. Una cosa che la faceva sempre riflettere era come, mesi e mesi di lavoro
psicoterapeutico paziente - sapete che lei vedeva i suoi ragazzini anche tre quattro volte a
settimana - a cui hai dedicato tantissimo tempo, tantissima passione, possono essere distrutti in
un attimo da un aggrottarsi degli occhi della madre. Adesso può essere anche comodo, però è
vero… perché, bene o male, questi genitori che sono fuori dalla comunità e che magari lorovedono solo per poco, restano fondamentali. Allora noi con Saman, anche con persone più
adulte, abbiamo messo come regola di ingaggio, cioè come regola per accettare i pazienti in
comunità, il fatto che la loro famiglia, potremmo usare un linguaggio poliziesco, “si
costituisca” per un lavoro terapeutico; proponiamo l’idea che, mentre loro cambiano in
comunità, anche gli altri cambiano a casa, anche perché sennò a che serve quel cambiamento ?
Ecco su questo ci si può mettere l’accento un po’ più forte, un po’ meno forte a seconda delle
situazioni, però questa è una cosa importante. Noi non possiamo immaginare e su questo i
terapeuti familiari hanno ragione e io lo rivendico con forza, la terapia non può essere
“rimettere a posto”, cioè non è un meccanico a cui dici “ti porto il figlio, facciamo un controllo
e poi me lo ridai così io continuo e vado avanti”. I comportamenti del figlio sono da rivedere
all’interno di sequenze comunicative che lui ha con i familiari più significativi, il papà, la
mamma, i fratelli; quel che sia, ogni volta c’è da rifletterci bene sopra. Allora questa, secondo
me, se la comunità terapeutica la sceglie come regola d’ingaggio, è una cosa molto importante.
Io credo che questo valga anche per quelli che lavorano in contatto con il minorile penale.
Devo dire che oggi, sentendo la Dottoressa Spagnoletti, capisco quanto il lavoro del magistrato
sia difficile, però credo che noi abbiamo un codice penale minorile straordinario, perché è una
cosa bella quella che si può fare con i nostri minori. Penso a quello che succede in altri paesi in
cui non è assolutamente così. Noi abbiamo la possibilità di progettare con il minore con questa
straordinaria “messa alla prova” all’interno della quale si può fare un progetto importante.
Secondo me, non è tanto importante il fatto che la si chiami “limitazione della libertà
personale”, ma se la comunità terapeutica sta dentro a un progetto di messa alla prova in cui si
coinvolgono terapeuticamente i familiari, quando è possibile farlo chiaramente, questo è uno
strumento. Forse alla parola “messa alla prova” dovremmo aggiungere l’idea che si tratta di un
provvedimento finalizzato ad un lavoro terapeutico, cioè un cambiamento della situazione, non
della persona. “Messa alla prova” è una brutta espressione, come dire “vediamo quanto sei
tarato”, ma se si intende “messa alla prova” in termini di “ti diamo un’occasione e lavoriamo
con te affinché questa occasione ti sia utile” diventa anche un termine interessante. Però la
progettualità che al giudice viene suggerita dall’equipe che si occupa della situazione, deve
comprendere una serie di aspetti che sono quelli della terapia di questo ragazzo, che può
prevedere il suo stare in una comunità, che può prevedere il suo frequentare un centro diurno e
deve prevedere anche la sua attività presso una struttura in cui fa un lavoro socialmente utile, la
sua frequenza alla scuola, quel che sia; ma dentro a questo, ci deve essere il lavoro con la
famiglia, altrimenti è difficile che questa persona possa cambiare solo lei; può capitare perché
abbiamo visto che si guarisce spontaneamente in tante situazioni, a volte la paura che uno si è
preso lo fa tornare indietro. Però nelle situazioni un po’ più complesse, l’intervento terapeutico
deve tener conto dei fattori che sono rilevanti per l’equilibrio psicologico e per il recupero della
possibilità e della capacità di crescere. Queste sono le sfide che abbiamo davanti.
Aggiungo una piccola osservazione in merito a ciò che è stato detto oggi dalla dottoressa
Spagnoletti. Io sto facendo un lavoro di supervisione con un gruppo di psicoterapeute che
prepara dei progetti terapeutici per il Tribunale. Consiglio sempre a loro di dire “Io sono il
terapeuta e dico questo, ma quello che decide è il giudice”. Perché penso che il giudice che
decide entro certi limiti, che sono quelli scanditi dalla scrittura della legge; la dottoressa
Spagnoletti l’ha detto benissimo stamattina. Io credo che ci sono tante situazioni in cui i tempi
non coincidono esattamente e allora il ragazzo deve capire che la realtà è questa. La realtà della
vita non è una realtà in cui le cose si accomodano secondo i tuoi tempi. Il giudice decide e “tu
devi adeguarti, anche se la cosa non ti sembra completamente giusta, ne puoi discutere, ma
devi discuterla nelle sedi giuste” e il terapeuta deve aiutare a comprendere che ci sono nella
vita delle realtà a cui ci si deve adattare, cioè il rispetto della norma, dell’istituzione come
anche dei genitori, dei compagni, dell’insegnante, un domani dei datori di lavoro, del
compagno o della compagna. Il rispetto è un qualche cosa che si basa sull’idea per cui, tante
volte, io penso di aver ragione però abbozzo, perché è così; se non sono capace di abbozzare,non sono capace di vivere; poi c’è sempre il tempo per dire le cose che riteniamo giuste, per
rimettere in discussione. Non si può pensare di avere tutto e subito. Questo tenere, il giudice, il
tribunale, la giustizia, il provvedimento un po’ fuori dal setting terapeutico. Vedere il setting
terapeutico, come un luogo in cui, anche la comunità terapeutica, voglio dire setting
terapeutico, intendo in senso molto lato, si riflette insieme sul fatto che gli esseri umani sono
limitati, che gli errori ci sono, ma che per vivere insieme agli altri come io voglio che gli altri
tollerino i miei errori, a volte lo pretendo perché do le mie spiegazioni, così io debbo tollerare
quello che a me sembra errore nella condotta dell’altro. Questo è un principio educativo
fondamentale: io credo che tutti cerchiamo di insegnarlo ai figli, anche se non sempre… perché
vedo, seguendo le partite di pallone, i genitori che gridano più loro contro gli altri e i ragazzini
che dicono “Papà sta’ buono, mamma sta’ buona, non ti arrabbiare”. Questo si vede anche a
scuola quando i genitori dicono al figlio che meritava un voto più alto di quello dato
dall’insegnante. Insomma è difficile perché i genitori si mantengono adolescenti fino a 50 anni,
vivono attraverso i figli l’adolescenza e tante cose, ma adesso ci perderemmo… Il principio
educativo su cui si fonda la stabilità dell’essere umano e quindi la buona crescita di un
adolescente è questo. Io credo che rispetto ai ragazzi che rischiano di più di deragliare durante
questo percorso di crescita, questo principio diventa più importante e deve essere seguito con
un’attenzione particolare.
Mi avvio alle conclusioni. Il punto è questo: che tutti coloro che si occupano del minore nella
rete debbono avere un’assoluta univocità di atteggiamenti, univocità che si raggiunge al
termine della discussione che non può essere immaginata o presunta “io faccio questo e tu ti
devi adeguare”. Univocità significa che si discute prima, come si faceva in fondo un tempo nel
partito comunista, si discuteva prima e dopo non si usciva fuori con un’altra idea. E’sempre
facile fare l’anima bella che si schiera con il minore contro gli adulti cattivi; ma al minore non
serve questo, serve qualcuno che sta con lui, con la sua sofferenza, con la sua difficoltà che lo
aiuti a trovare la strada per vivere insieme agli altri, perché altrimenti “non ci si fa”.
Io voglio dirvi che sono contento di essere qui, di aver trovato tutta questa gente che lavora in
questo campo, vi assicuro che è qualche cosa davvero di molto nuovo, che io spero che cresca,
perché questa, in fondo, è una missione della nostra generazione; far sì che questo cresca
sempre di più e che diventi qualcosa che viene come risposta a tutti i minori in difficoltà. Credo
che la percentuale non sia ancora vicina al 100%. C’è ancora molto da lavorare, perché tante di
queste esperienze non più pionieristiche - il tempo dei pionieri è finito - ancora non però
sufficientemente diffuse, diano davvero risposte a tutti quelli che ne hanno bisogno.
Grazie
Costi dell'inchiesta Cogne
PROCURA D'AOSTA E PROCURA DI TORINO.
PROCURA AOSTA: ha sostenuto spese 91.174,89 euro che comprendono consulenze medico-legali, intercettazioni e relative trascrizioni, richieste di tabulati telefonici ecc. Nel dettaglio: i carabinieri del Ris di Parma hanno chiesto 14.743,14 euro per prove e materiali più altri 4.935,02 euro per indagini suppletive. E un rimborso spese per la 'missione a Torino del sottufficiale Edoardo Costale con automezzi speciali' svoltasi dal 26 al 29 marzo e dal 9 al 18 aprile 2002 di 323,71 euro.
Ma poi l'Arma ha rinunciato ai rimborsi. Quelli che la Procura definisce 'materiali di base' (serviti per fotografie, ispezioni condutture, trascrizioni intercettazioni e degli interrogatori) se ne sono andati altri 3.021, 36 euro. Poco costose anche le intercettazioni, 'appena' 29.779,40 euro per il noleggio dell'apparecchiature della ditta Tes srl di Milano, il filtraggio e la masterizzazione se si pensa che in pratica i magistrati di Aosta hanno messo sotto controllo tutti i telefoni di Cogne: lo prova la richiesta dei tabulati ai gestori di tutte le reti Tim, Vodafone, Tiscali e Wind, costata 5648,49 euro.
Il bilancio della Procura si chiude con le liquidazioni degli onorari dei tre consulenti scelti dal sostituto procuratore Stefania Cugge: 3.205,50 euro per il professor Francesco Viglino, il medico legale autore della controversa autopsia sul corpo della piccola vittima; 3996,74 per lo psichiatra forense Ugo Fornari e 3256, 45 euro per Massimo Picozzi, criminologo vestito di nero che delineò il profilo criminale di Annamaria Franzoni con lo studio delle sue mutande suscitando le perplessità non solo dei magistrati. Il Gip Fabrizio Gandini e il gup Eugenio Gramola sono stati ancora più parchi. Il primo ha pagato la perizia psichiatrica commissionata al trio Barale-De Fazio e Luzzago, concorde nel definire la Franzoni 'capace di intendere e volere' e soprattutto 'incapace di uccidere': 3200 euro più gli onorari dei tre (2300 euro per Fazio, 2000 per Barale e 1800 per Luzzago).
La 'superperizia' sulle tracce di sangue sul pigiama ordinata da Gramola ha fruttato 15.900 euro al criminologo tedesco Hermann Schmitter, 46.500 euro al professor Pascali, esperto di Dna, (nominato poi membro della commissione parlamentare sulla morte di Ilaria Alpi presieduta dall'onorevole avvocato Carlo Taormina) e 6.800 euro al professor Boccardo del Politecnico di Torino. In tutto quindi il processo di primo grado ad Aosta, sfociato nella condanna a trent'anni per la Franzoni, è costato 177.998 euro. Cifra piuttosto contenuta se si pensa che per una sola perizia commissionata dal presidente dei gip torinesi Piergiorgio Grosso nell'inchiesta Cogne Bis che vede tutt'ora indagati con l'accusa di frode processuale e calunnia non solo i coniugi Lorenzi ma anche l'avvocato Taormina, i suoi consulenti, Enrico Manfredi d'Angrogna Luserna e Claudia Sferra e l'investigatore privato Giuseppe Gelsomino sono stati sborsati ben 223.931 euro, sommando spese ed onorari.
Con un risultato amaro: quella che nel palazzo di giustizia torinese era stata definita la madre di tutte le perizie (300 pagine con appendice dedicata alla 'idrossiapatite', misteriosa sostanza ritrovata nei falsi indizi rilevati dal pool di tecnici di Taormina) è stata smantellata dallo studio del professor Carlo Torre che ha dimostrato come tale sostanza non è così difficile da reperire, come giuravano gli esperti di Grosso, essendo presente negli escrementi di cani e gatti. Nell'occasione si fece notare il tossicologo Aldo Grasso, che scettico sulle conclusione dei colleghi (la professoressa Maria Careri, il dottor Ciro di Nunzio, il dottor Marco di Paolo e l'ispettore capo Andrea Giuliano) rinunciò al compenso chiedendo solo il pagamento delle spese sostenute.
Solo a titolo di esempio e ciascuno capisca quello che può e vuole, qui, da Micromega, dell'ultras comunista D'Arcais, la perizia del Cancrini su Padre Pio, senza natualmente averlo mai visitato, come da copione. Inutile dirvi che per uno che condivide una formazione scientifica tipo la mia, una tale perizia" è puro carnevale, o se preferite, una carnevalata, una burletta, certamente non scientifica (devo vedere il paziente e devo farlo in una visita possibilmente consenziente e in un contesto libero, non costrittivo).
PERIZIA PSICHIATRICA SU PADRE PIO
MICROMEGA
Gruppo Editoriale L’Espresso
Giustizia e pace
3, 1999
PERIZIA PSICHIATRICA SU PADRE PIO
'Istrionismo e trance dissociativa':
una diagnosi scientifica sulle turbe di personalità del frate di Pietrelcina,
'santificate' da Karol Wojtyla e acclamate da folle crescenti.
Luigi Cancrini
pp. 194-200
La diagnosi
Una diagnosi psichiatrica relativa al caso di padre Pio non è difficile da proporre. Osservato longitudinalmente, il disturbo di cui ha sofferto padre Pio è, secondo il Dsm IV (il manuale diagnostico preparato dall'Associazione degli psichiatri americani e oggi largamente utilizzato anche in Italia e in Europa), un disturbo istrionico di personalità. Osservato trasversalmente, nelle sue manifestazioni sintomatiche più evidenti, il suo è un disturbo di trance dissociativa.
Il disturbo di trance dissociativa
I criteri di ricerca per il disturbo di trance dissociativa sono di ordine sintomatico e culturale. Il primo prevede due diverse condizioni morbose che possono presentarsi, in periodi diversi, nella stessa persona. Dal Dsm IV:
a) Trance, cioè alterazione temporanea marcata dello stato di coscienza, oppure perdita del senso abituale dell'identità personale, senza che vi sia il rimpiazzamento da parte di una identità alternativa, e associata con almeno uno dei seguenti elementi:
- restrizione della consapevolezza riguardo all'ambiente circostante, oppure focalizzazione ristretta e selettiva sugli stimoli provenienti dall'ambiente;
- comportamenti o movimenti stereotipati, che vengono percepiti come sfuggenti al proprio controllo.
b) Trance di possessione, una alterazione singola o episodica dello stato di coscienza, caratterizzata dal rimpiazzamento del senso abituale dell'identità personale da parte di una nuova identità.
Ciò viene attribuito alla influenza di uno spirito, di una potenza, di una divinità o di una altra persona, e viene evidenziato dalla presenza di uno (o più) dei seguenti elementi:
- comportamenti o movimenti stereotipati e culturalmente determinati che vengono vissuti come controllati dall'agente della possessione;
- amnesia completa o parziale per l'evento.
Gli agenti presumibili della possessione sono di solito di natura spiritica (per esempio spiriti dei morti, entità soprannaturali, divinità, demoni), e vengono spesso percepiti come impositivi e minacciosi.
Il secondo criterio, di ordine culturale, pone un problema più generale di rapporto fra questo tipo di esperienza e i luoghi sociali in cui esso si manifesta. Per parlare di disturbo di trance dissociativa, scrive il Dsm IV, è necessario che tali episodi «non siano previsti come parte normale di una qualche pratica culturale o religiosa collettiva». Il che è sicuramente avvenuto nel caso di padre Pio, che fu sottoposto in vita, secondo l'opinione di chi in lui credeva, «ad una vera e propria persecuzione» da parte di chi, anche dall'interno della Chiesa, non riconosceva la natura soprannaturale dei suoi disturbi dando luogo, nel tempo, ad una serie di controversie, spesso assai drammatiche e causa di gravi sofferenze per lo stesso padre Pio. Come accade assai spesso peraltro a chi soffre di una condizione morbosa la cui prevalenza è particolarmente elevata «tra le minoranze etniche tradizionaliste all'interno delle società industrializzate»: in situazioni, cioè, di cui la terra di padre Pio era ed è esempio fra i più evidenti nella storia recente del nostro paese. Le manifestazioni dello star male di padre Pio che con più chiarezza propongono la validità di questa impostazione diagnostica sono frequenti e vengono descritte con cura particolare da coloro che hanno studiato la sua vita. Due ne ho scelte, fra tutte, nel racconto del suo biografo «ufficiale»; fra' Alfonso Maria Parente.
Padre Pio fu mortificato, quasi calpestato, dalle forze del male, perché esse sapevano il bene che avrebbe compiuto durante la sua vita. Già alla tenera età di cinque anni il piccolo Francesco fu visitato e percosso dal demonio.
In modo particolare nella torretta di Pietrelcina, dove Padre Pio visse per un certo periodo, lottava nottate intere contro il diavolo che si presentava sotto le più diverse sembianze. In una lettera del 1910 egli scrisse che «quei brutti ceffi sono venuti alle dieci di sera e se ne sono andati soltanto questa mattina; mi hanno trascinato per la stanza, mi hanno spogliato e mi hanno caricato di botte, però è venuto Gesù bambino a consolarmi»; in un'altra, facendo sempre riferimento alle lotte contro il maligno, affermò che «è venuto Gesù, mi ha raccolto dal nudo pavimento e mi ha rimesso a letto» ed in altri scritti raccontò delle visite consolataci di S. Giuseppe e di S. Francesco dopo le notti passate a lottare con le forze del male. Le tentazioni erano così numerose da prostrarlo profondamente. Desiderava che gli fossero, piuttosto, cambiate dal Signore in dolori fisici, per timore di commettere anche un solo peccato. Una santità, dunque, straordinaria. [sic!]
Padre Pio stava confessando alcuni giovani seminaristi, poiché a quel tempo il convento fungeva anche da seminario; nell'atto di confessare uno di questi ragazzi, fu sopraffatto da una visione che lo stesso Padre descriverà, qualche tempo dopo, al suo direttore spirituale: gli apparve dinanzi «all'occhio dello spirito» (la definizione è di Padre Pio) un personaggio misterioso che reggeva una lancia con una punta ben acuminata. Il vedere tale personaggio e l'atto stesso dello scagliare la lancia nel cuore di Padre Pio fu un tutt'uno, come egli racconta; da quel momento si sentì ferito a morte (gli fu impressa la piaga nel costato) ed il suo dolore fu così intenso da costringerlo a dire al seminarista di ritirarsi, perché non poteva continuare ad ascoltarne la confessione. I due giorni che seguirono furono, secondo le sue parole, i più dolorosi della sua esistenza e contemperati, nello stesso tempo, da una beatitudine di sapore celestiale.
Secondo gli esperti, quel fenomeno, che tecnicamente è chiamato «trasverberazione del cuore», appartiene ad un grado di elevazione spirituale altissimo, ed è possibile riscontrarlo soltanto nell'esperienza spirituale di pochissimi altri grandi santi, tra cui S. Giovanni della Croce, S. Teresa d'Avila, S. Carlo da Sezze, quest'ultimo poco conosciuto ma anch'egli grande personaggio del mondo e della mistica francescana.
Nel caso di Padre Pio questa esperienza è ritenuta un preludio alla realizzazione meravigliosa che si sarebbe compiuta nel suo corpo e che ebbe luogo proprio nel «coro», la mattina del 20 settembre.
Padre Pio quel giorno aveva celebrato Messa all'altare di sotto; subito dopo la celebrazione, così come era solito fare, era salito nel coro, inginocchiandosi per il ringraziamento al Signore. Durante tale preghiera, fu sopraffatto da una specie di sonnolenza e tutti i suoi sensi si trovarono immersi in una condizione di grande pace e di inesprimibile serenità e tranquillità. Alzando gli occhi, vide dinanzi a sé quello stesso personaggio che un mese prima aveva inferto la ferita mortale; la sola differenza era il fatto che questa volta, dalle mani, dal costato e dai piedi di tale personaggio, grondava sangue abbondantemente. Quando la visione disparve, Padre Pio si avvide che le sue mani ed i suoi piedi erano stati trafitti e grondavano sangue copiosamente.
Si sentì confuso, umiliato e indegno di portare le medesime ferite che avevano segnato il corpo di Nostro Signore. Pregò Dio ardentemente di liberarlo dalla mortificazione ma non dal dolore: questa volta la sua richiesta non fu accolta e le stimmate rimasero impresse e ben visibili fino al momento della morte quando, miracolosamente, sparirono senza lasciare alcuna cicatrice. Nonostante il tentativo di tenere nascosto l'evento, ogni sforzo si rivelò inutile, soprattutto quando la notizia raggiunse i giornali che ne divulgarono l'accaduto.
Il disturbo istrionico di personalità
Ancora dal Dsm IV:
Le caratteristiche essenziali del disturbo istrionico di personalità sono un'emotività pervasiva ed eccessiva e un comportamento di ricerca di attenzione. Gli individui con disturbo istrionico di personalità si sentono a disagio o non apprezzati quando non sono al centro dell'attenzione. Spesso brillanti e drammatici, tendono ad attirare l'attenzione, e possono inizialmente affascinare le nuove conoscenze per il loro entusiasmo, apparente apertura e seduttività.
L'espressione emotiva può essere superficiale e rapidamente mutevole. Gli individui con questo disturbo costantemente utilizzano l'aspetto fisico per attrarre l'attenzione.
Questi individui hanno un eloquio eccessivamente impressionistico e privo di dettagli. Convincenti opinioni vengono espresse con acume, ma le ragioni sottostanti sono di solito vaghe e generiche, senza fatti e dettagli di supporto. Per esempio un individuo con disturbo istrionico di personalità può commentare che una certa persona sia un essere umano meraviglioso, ma è incapace di fornire esempi specifici di qualità positive che supportino questa opinione. Gli individui con questo disturbo sono caratterizzati da autodrammatizzazione, teatralità ed espressione esagerata delle emozioni.
Gli individui con disturbo istrionico di personalità hanno un elevato grado di suggestionabilità. Le loro opinioni e sentimenti vengono facilmente influenzati dagli altri e da momentanei entusiasmi. Possono essere eccessivamente fiduciosi, specialmente nei confronti di figure con forte autorità, a cui attribuiscono la risoluzione magica dei loro problemi.
L'insieme di queste caratteristiche è molto evidente in una storia come quella di padre Pio: un uomo capace di stare costantemente al centro dell'attenzione, per l'eccezionaiità delle sue esperienze. Il tono dimesso con cui ne parla, la naturalezza con cui le descrive sono sincere (l'istrionico non è un simulativo) ed hanno un impatto formidabile su chi le ascolta restando «a bocca aperta». Leggiamo ancora quanto scrive fra' Parente:
Era convinto che quei fenomeni da noi definiti soprannaturali o straordinari fossero invece assolutamente ordinari e comuni a tutte le anime. La cosa acquista per noi un sapore paradossale se consideriamo che Padre Pio nutrì quella convinzione fino all'ormai matura età di 28 anni, quando gli fu fatto notare che le esperienze di tipo mistico che egli viveva (accostarsi all'Eucarestia e vedere fisicamente Nostro Signore, o la Vergine Maria, o l'angelo custode, o spiriti beati...) erano fenomeni visibili solo a lui.
In altre situazioni, la seduttività della personalità di tipo istrionico si gioca carte diverse: dalla provocazione sensuale alla teatralità leaderistica dei gesti e degli atteggiamenti. Quelle che vengono cercate ed ottenute, qui, sono un'attenzione ed una leadership giustificate da credenza e illusioni di tipo religioso. Si rifletta, per rendersene conto, su un episodio marginale riferito con gran precisione di dettagli da fra' Alfonso Maria Parente.
La piaga del petto è quella più nascosta e difatti, solo pochissime persone hanno avuto la possibilità di vederla. Per averla vista devo «ringraziare» il diavolo; potrebbe sembrare un'affermazione provocatoria, ma è così: c'era una ragazza di 20 anni circa, impossessata, venuta da Padre Pio in pellegrinaggio per chiedere la grazia di essere liberata dal demonio, ma pochissimi sapevano. La sera dopo la benedizione Padre Pio passava davanti alla gente benedicendo sorretto da me. Giunto di fronte a questa ragazza, bellissima e giovanissima ma attorniata da quattro o cinque uomini robusti, Padre Pio diede la benedizione ed improvvisamente, prima che finisse le parole, la ragazza gli si scagliò addosso ingiuriandolo e offendendolo con una voce grave, da uomo.
Accompagnai Padre Pio lontano da lì, e venni a sapere che questa ragazza era una posseduta, non a livello psicologico, come capita il più delle volte, ma concretamente.
Ce ne andammo e verso le 10, 10 e 30, sentimmo un rumore all'interno del convento. Era un rumore spaventoso che fece tremare le pareti del convento come se fosse stato un terremoto, e poi una voce esile: «Confratelli, confratelli...» proveniente dalla cella di Padre Pio. Andammo di corsa e lo trovammo per terra, a testa in giù e grondante di sangue: era una posizione strana, non dovuta ad una caduta normale; sembrava che fosse stato sbattuto con violenza a terra da una forza soprannaturale. Sollevammo Padre Pio, incapace di muoversi, e lo adagiammo sul letto. Quasi subito giunse il suo medico personale che dovette suturare con due punti la ferita vicino l'occhio destro. Terminata questa operazione Padre Pio, che aveva la maglia interna impregnata di sangue, pregò i confratelli di uscire e mi chiese di aiutarlo a cambiare la biancheria interna. Benché la luce fosse bassa, a causa di un fazzoletto azzurro che Padre Pio era solito mettere sopra la lampada, riuscii a vedere la ferita del costato nonostante i suoi tentativi di nasconderla: aveva una forma particolare come una croce inclinata; essa non presentava croste, ma fuoriusciva del sangue sieroso in maniera evidente, non abbondante, ma continuo.
L'eloquio di padre Pio è «impressionistico e privo di dettagli». Le sue opinioni «vengono espresse con acume ma le ragioni sottostanti» sono «vaghe e generiche». È la convinzione relativa alla santità della persona da cui provengono che attribuisce loro un fascino tutto particolare. L'autodrammatizzazione e la teatralità sono efficaci proprio in quanto proposte da una persona schiva, «umile», capace di attrarre attenzione attraverso la sua spiccata tendenza ad appartarsi, a restare nascosto. La suggestionabilità è esistente fin dall'inizio ma si dirige rapidamente verso le sue stesse esperienze e le figure diverse che in esse si manifestano. Il disturbo istrionico di personalità si associa naturalmente al disturbo di trance dissociativo. La vecchia psichiatria faceva rientrare ambedue nel grande campo dell'isteria: un termine oggi in disuso ma di cui va riassunto qui il significato di disturbo funzionale (cioè non sostenuto da lesioni organiche), involontario e non consapevole (cioè non collegato alla simulazione) e che trae origine (da Freud in poi) in vissuti ed esperienze infantili non correttamente elaborati. Un disturbo che può esprimersi, e che non essenzialmente lo fa, anche a livello del corpo: in forma di stimmate o di piaghe al costato di cui sarebbe ingenuo e sbagliato dire che erano «simulate» ma di cui è sicuramente lecito pensare che fossero speciali e particolari «sintomi di conversione».
Liceità della diagnosi
Il dubbio cui non ci si può sottrarre nel momento di trarre una conclusione è quello che riguarda la liceità della diagnosi. E operazione corretta ed utile quella di chi utilizza un manuale per inquadrare o, entro certi limiti, per spiegare i comportamenti di una persona che fu visitata da molti medici ma che mai pensò da solo e per cui nessuno mai pensò di consultare uno psichiatra? Quella di cui ci si rende responsabili agendo in questo modo non è, in qualche modo, una forma di prevaricazione? Non obbedisce egli stesso, lo psichiatra, nel momento in cui fa diagnosi utilizzando la biografia scritta da un devoto confratello di padre Pio, ad un bisogno profondo di esorcizzare il sacro o il soprannaturale, l'esperienza che gli è ignota e che potrebbe mettere in contraddizione il sistema di valori e di credenze consolidate cui anch'egli, lo psichiatra, affida una parte del suo equilibrio personale? Non tenterò di dare risposta all'insieme di questi interrogativi semplicemente perché, in un dibattito del genere, mi sento e sono parte in causa: persona legata, cioè, ad una posizione costruita nel tempo, vissuta con forti livelli di partecipazione, difficile da relativizzare ragionando. Il problema è serio, tuttavia, perché è intorno a storie del tipo di questa che si definiscono, ancora oggi, sentimenti di appartenenza, visioni del mondo, forme del giudizio capaci di influire profondamente sui comportamenti collettivi. La diffusione e la santificazione di un sentimento religioso affascinato dalle imprese (sintomi) di un santo (persona con gravi disturbi personali) significa, da questo punto di vista, promozione e diffusione fra i fedeli di una credenza che molti pensavano superata: il male del mondo, si legge nella vita di padre Pio, è opera del diavolo e delle tentazioni cui un grande scommettitore (Dio) esporrebbe la creatura uomo semplicemente per vedere se ad esse sarà in grado di resistere; credenza medievale dal punto di vista della collocazione storica, primitiva e un po' perversa dal punto di vista dell'organizzazione psicologica di chi la provoca o la condivide e che non è stata mai negata apertamente, tuttavia, dalla Chiesa di Roma.
Viene spontaneo dire, sulla base di queste osservazioni, che sarebbe stato assai più utile, più creativo, più maturo e più sano diffondere e santificare, alle soglie del Duemila, in un momento in cui la Chiesa di Giovanni Paolo II tenta di ricostruire rapporti con le altre Chiese del mondo nel nome e nel segno di una ritrovata spiritualità, altre forme di religiosità, altri modi di leggere il messaggio del Vangelo. A titolo di esempio e senza pretesa di prevaricare, da parte di un non religioso, procedure scelte di persone che credono, sarebbe stato meglio santificare, forse, don Lorenzo Milani: un uomo capace di produrre, a Barbiana, miracoli molto più seri e più grandi di quelli prodotti dalle stimmate di padre Pio. Che questo tipo di discorso non passi e che le folle siano chiamate ad acclamare il mistero del sintomo (le stimmate) invece che la chiarezza della parola (il Vangelo) significa, in fondo, che il sentimento religioso rappresenta ancora oggi, per milioni di persone, un modo di evitare il contatto con la realtà: continuando a raccontarsi favole di cui l'inconscio profondo del singolo si serve per gestire, esprimere, simbolizzare conflitti non risolti e di cui le istituzioni continuano a servirsi per restare se stesse, luoghi e riti cui gli individui sacrificano la loro possibilità di essere se stessi. Diceva a Gesù tornato in terra il grande inquisitore di Dostoevskij che l'uomo non tollera il peso della libertà. Che Egli aveva sbagliato e sbagliava proponendogli un compito superiore alle sue forze. Che compito della Chiesa era quello di salvare l'uomo da questo peso difendendolo dalla forza eversiva della Parola. Come andava in principio ed ora e sempre: o, per lo meno, oggi.
QUESTA è la trascrizione completa della relazione del Prof. Cancrini Luigi a un convegno non so bene, a cui partecipano Giudici per i minori e associazioni di riabilitazione, psichiatri e psicologi e vari altri operatori, preti, forse, politici eccetera: ormai conosciamo a memoria il copione.
Prima di copiarla, vi dico che il Cancrini si profonde in una serie di esposizioni sul tema dell'adolescente e la sua problematicità, la sua devianza e riabilitazione e terapia (psicoterapia), riagganciando spesso gli studi (sic!) della Klein, e impartendoci dei beveroni a base di terapia familiare, psicoanalisi infantile, terapia di consultorio, psicoterapia con psicologhe, le famigerate psicologhe, che sempre sono dentro questi contesti. Naturalmente non si parla di metodologie, di progetti di prevenzione e piani riabilitativi nei quartieri a rischio;. si usa una commistione ignorando volutamente le aree sociali di problematicità, le condotte a rischio, i piani di intervento, i mezzi, i finanziamenti e i controlli di efficacia.
Questa terminologia è estranea ai vetero e paleo psichiatri comunisti, tutti tesi a portare avanti ideologie di società e malattia coerenti con tali principi-
Naturalmente, del buon uso dei danari pubblici nelle associazioni famigerate sia di area sinistrese che di Comunuone e Liberazione, non si deve parlare. Tanto, sappiamo chi paga...
Inutile dire che per noi pisani, un tale discorso è praticamente cinese, arabo, sanscrito, roba del millennio passato e sepolto, in un epoca in cui entro venti anni, si faranno le prime diagnosi psichiatriche a livello genetico e strumentale (rilevazione funzionale attività neuronale di ambulatorio. Dico questo perché ho visto recentemente un macchinario della Philips che rivoluzionerà la diagnosi psichiatrica a livello ambulatoriale e forse guiderà anche la terapia con micro-onde almeno nella depressione. Ma non ditelo, la Philips è olandese, e solo noi italiani facciamo macchine rivoluzionarie: senza di noi non ci sarebbero nemmeno gli psicofarmaci, eh,eh,eh.).
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Psichiatra, Psicoterapeuta, Presidente del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale.
Condivido le riflessione di straordinario rilievo espresse stamani.
Noi eravamo abituati a pensare al disturbo di personalità come a qualcosa di stabile, di statico e
invece non è così. Il disturbo di personalità è qualcosa in cui tanti di noi “entrano” ed “escono”
a periodi.
Vi propongo due riflessioni su questo tema. Una riflessione riguarda una ricerca; la principale
ricercatrice si chiama Mary Zanarini (Zanarini et al., 2010) di Boston. Si tratta di uno studio su
persone diagnosticate con disturbo borderline di personalità, durante un ricovero in una
struttura psichiatrica; è stata svolta una revisione di queste situazioni a 2, 4, 6 e più di 7 anni,
sempre con la domanda “Soddisfa ancora i criteri per il disturbo borderline di personalità?”.
Ebbene dai 2 ai 4 ai 6 e agli oltre 7 anni c’è una discesa progressiva del tasso di persone che
soddisfano ancora quei criteri: oltre i 7 anni soltanto il 25%. Badate che sono diagnosi fatte in
ambiente ospedaliero e quindi per persone che hanno richiesto un ricovero per questo loro
disturbo; pertanto, non stiamo parlando di borderline detto così come si dice “matto”, ma si
tratta di una “cosa seria”; è una diagnosi seria che tende a scomparire.
E, d’altra parte, chi ha frequentato i luoghi del potere, quante volte vediamo persone che
sembrano “normali” e poi, ad un certo punto, partono in una traiettoria psicopatologica; gli
sviluppi narcisistici del personaggio politico o dello spettacolo, e così via, sono drammatici per
chi guarda da fuori; non c’è dubbio che questo accada per un eccesso di consenso, certo su una
persona che una disposizione ce l’ha in quella direzione.
Benjamin L.S. (1996) ha riassunto bene questo aspetto, evidenziando che i disturbi narcisistici
si sviluppano, si espandono, sfondano tutto da una certa fase della vita in poi. Ecco noi
abbiamo questa grande area dei disturbi di personalità, che poi raccoglie la grandissima parte
della psicopatologia, la quale è reversibile con grande vivacità di cambiamenti nell’età
adolescenziale e con una maggiore farraginosità e lentezza, successivamente in un senso e
nell’altro, ma comunque un’area in cui si può “entrare” ed “uscire” a seconda delle circostanze
della vita. Tornando agli adolescenti, il problema è che noi non possiamo mai pensare, che ad
un certo punto individuiamo un adolescente che è patologico e che quindi viene da una
patologia e seguiterà una patologia se non viene curato; noi siamo sempre di fronte a situazioni
provvisorie, rispetto a cui i cambiamenti di contesto e i cambiamenti di situazioni
interpersonali intorno possono determinare sviluppi incredibilmente diversi rispetto al punto di
partenza. Sia detto per inciso anche per ristabilire qual è lo spazio proprio della psichiatria, che
in uno studio di Toronto (Korenblum M., 1990), quello che si vede è invece che laddove a 13 o
a 15 anni si fa diagnosi di un disturbo psicotico, lì è difficile che a 18 non lo si ritrova. Quindi
quello è un altro capitolo, un capitolo più psichiatrico in cui è chiaro che quando saremo in
grado bene di fare le diagnosi sul disturbo di personalità, invece che proprio sui sintomi che
appaiono, ne possiamo forse dimensionare meglio i programmi; perché poi uno deve ragionare
anche su ciò che può promettere a chi viene da lui e promettere a sé stesso come obiettivo del
proprio intervento ogni volta. E certo quello che sta accadendo adesso è che quello che
accomuna nella struttura è l’essere adolescente e non la diagnosi ancora. Solo che la diagnosi
vista da questo punto di vista divide le persone in tre grandi categorie: quelli che hanno un
disturbo psicotico già nell’adolescenza e che chiedono, un’attenzione, una cura, una pazienza,
una dedizione di programma abbastanza complesso e sicuramente anche un forte
coinvolgimento della famiglia; ma questo adesso lo lasciamo un attimo perdere perché è unaparte che non è centrale nel grande numero di persone di cui si è parlato oggi in tutti questi
interventi, anche se a volte spunta anche nelle situazioni del Tribunale, perché certamente la
rottura comportamentale può essere psicotica. La seconda grande categoria è quella delle
persone di cui io ripeto che “entrano” ed “escono” o “entrano” e “possono uscire” che è un
pochino più delicato all’interno di un disturbo di personalità. Vedete, noi dobbiamo avere
ormai una visione della psicopatologia dell’età evolutiva, come giustamente proponeva
Sabatello, in cui le manifestazioni dell’ “entrare” nel disturbo di personalità possono essere a
volte sintomatiche; la grande crisi, che un tempo si chiamava isterica, oppure il disturbo
ossessivo - compulsivo, ma possono essere a volte invece direttamente comportamentali. Cioè
quello che si rivela attraverso la rottura comportamentale, è un disturbo della persona, è uno
che sta male, il ragazzo che fa casino sta male. Questa è una cosa che se noi pensiamo, un
pochino ci aiuta, non è che esiste una differenza tra quello che è cattivo e deve essere
“corretto” e quello che sta male e deve essere “curato”. Una delle manifestazioni dello star
male, che anch’essa va curata, è il comportamento scorretto con tante variazioni, certamente
con tante situazioni complesse, perché sicuramente quello a cui dobbiamo stare molto attenti è
il fatto che questa scorrettezza, illogicità, incoerenza, se volete non eticità, amoralità del
comportamento sia legata ad un disturbo più interno della persona o a qualche cosa di
assimilato all’ambiente per esempio.
In una comunità per minori che, con Saman, abbiamo aperto vicino Foggia, ad Apricena, poco
tempo fa, sui primi 10 ragazzi che sono passati in questo primo anno di attività, ce ne sono
almeno due che hanno un’attività delinquenziale familiare, che sono fonte di sostentamento
criminale per famiglie immerse in una logica di un altro tipo, non rispetto a quella in cui gli
altri invece si trovano. Certamente, il problema è molto più complesso e pone problemi di
ordine vario; insomma, nella rete bisogna dare più importanza all’intervento giudiziario che a
quello psicologico interpersonale, perché è complesso fare un lavoro di terapia familiare in
rapporto con i genitori, se i genitori hanno in mente di portarlo fuori, perché poi gli “serve”.
Questo riguarda tante situazioni in cui bisogna immaginare insieme al ragazzo o ragionando
per lui e, comunque, sempre con lui, se quello di cui ha veramente bisogno è di essere portato
fuori dall’ambiente da cui proviene anche in modo definitivo. Pensate a tutte le baby prostitute
che poi chiedono aiuto, dopo essere state portate in Italia; magari non hanno nemmeno 18 anni,
ma sono un problema serio lo stesso, vanno aiutate a ricostruirsi una vita in ambienti diversi da
quello da cui provengono. Questo è uno dei temi con cui ci si confronta. Però fuori da queste
situazioni il grande problema di questi ragazzi e ragazze è quello di “trovare pace” con i loro
genitori interni, trovando anche un qualche rapporto con quelli che hanno fuori e con quelli
putativi che incontrano nelle varie comunità. Allora, il rapporto con questi ragazzi ha necessità
assoluta di due grandi principi: uno è un principio di ordine, a cui si collega il tema della
responsabilizzazione e uno è un principio di vicinanza e di ascolto che tiene conto del
turbamento profondo che loro si portano dentro. Alloro io dico che l’intervento di comunità è
un intervento continuamente anfibio, di comunità e anche fuori di comunità, in cui bisogna
avere competenze psicoterapeutiche perché sono necessarie per questo ascolto e bisogna avere,
però, anche posizioni e competenze di tipo educativo. Perché guardate, questa è un’illusione
che ho consumato anche io che faccio lo psicoterapeuta ormai da 35 anni: il ragazzo che viene
da te avendo dei comportamenti disordinati e che si lamenta e piange dei genitori, ma rispetto a
cui tu metti in opera solo l’ascolto, è un ragazzo che da te non riceve nessun aiuto. Hai voglia
ad ascoltare ed interpretare, ma non si conclude niente. Si conclude qualcosa quando accanto
all’ascolto, c’è anche la risposta che gli impone di responsabilizzarsi. La responsabilizzazione
nella comunità è un fatto fondamentale di ordine terapeutico. Io credo che sia importante
collegare queste cose a ciò che sappiamo dalla ricerca psicoterapeutica e psicoanalitica in
particolare.
Vedete, Melanie Klein (1932) insisteva molto sul fatto, che le figure parentali introiettate dai
pazienti con problemi di comportamento, di impulsività o, se volete, di antisocialità, sonofigure parentali introiettate estremamente crudeli, estremamente dure contro le quali si esprime
una ribellione continua e totalmente inutile ed autolesiva. Ma c’è uno scontro con un qualcosa
che uno si porta dentro, con una crudeltà che gli è stata inflitta. Nelle ricerche sui disturbi di
personalità, si vede che laddove sono forti le componenti antisociali, è fortissima la
trascuratezza che quel ragazzino ha subito: il neglect, dalla parola inglese, la “trascuratezza”, il
fatto che non si sono accorti delle sue esigenze di base, corrisponde all’antisocialità ed è un
genitore interno estremamente crudele e lontano quello che loro si portano dietro. Allora noi
possiamo ragionevolmente immaginare che quando arrivano in un luogo dove qualcuno li
“ferma” in un modo affettuoso, ma appunto fermo, loro si incontrano e reagiscono in tanti
modi, con un genitore che non è distante, crudele, assurdo come quello che si portano dentro.
Ma loro di questo hanno bisogno, perché al contrario con un atteggiamento troppo vicino,
comprensivo, affettuoso e basato solo su quello, non si risolve niente; perché loro tanto non si
possono fidare e il loro fidarsi passa attraverso la consuetudine con persone che danno loro un
modello di comportamento a cui loro possono appoggiarsi. E’ vero, e Sabatello lo ricordava,
che i disturbi antisociali di personalità sono quelli più difficili da trattare. Noi possiamo dire
che quote antisociali ci sono nella gran parte dei ragazzi di cui stiamo parlando, di cui abbiamo
discusso questa mattina. Più “pura” è l’antisocialità, più evidente e chiara è l’antisocialità, più
difficile è la cura perché quello che è necessario è un tempo lungo per incontrare la persona
dietro questa maschera continuamente beffarda, lontana, distante, aggressiva che fa saltare i
nervi a qualsiasi operatore con tutta la sua pazienza. Però è anche vero che non è un’impresa
impossibile, soprattutto finché sono giovani, finché sono adolescenti. Anche per un
personaggio di Romanzo Criminale di De Cataldo, arrivato a 40 anni, che ha 30 anni di carcere
da scontare, forse non è tanto facile da responsabilizzare, non è così semplice, e pertanto
bisogna immaginare un carico maggiore di difficoltà.
Anche se, guardate, io ho fatto per alcuni anni supervisione in un ospedale psichiatrico
giudiziario e posso assicurarvi che c’è molta vita anche lì ! Ma l’antisociale “puro”
difficilmente va in OPG, l’antisociale “puro” finisce magari nel 41bis e in altre di queste
situazioni tutte segnate dalla repressività. Questo è un discorso che ci porterebbe lontano, ci
porta verso la psicologia penitenziaria.
Però è certa una cosa, stiamo parlando di adolescenti; sono storie che possono essere
modificate quando si ha la possibilità di intervenire in adolescenza perché è ancora un
materiale estremamente plastico. Allora noi dobbiamo passare da una cultura della diagnosi, in
cui colui che fa diagnosi è uno che, con i raggi x della sua esperienza e cultura psicopatologica,
fotografa il disturbo di chi ha davanti e quindi dice “questo che sta così, diventerà cosà”, ad
una situazione in cui la diagnosi è una diagnosi funzionale che recita più o meno così “in
questo momento della sua vita, in questo contesto, in questa situazione, in questo equilibrio
complessivo dei suoi rapporti questa persona presenta questi tratti”, ma con tutte queste
specificazioni intorno. Dopodiché la diagnosi reale da che cosa viene fuori, dal confronto fra
questo e quello che accade a quella persona, man mano che i suoi contesti vengono cambiati
dall’azione terapeutica. Noi dobbiamo sapere che quelli che vanno cambiati sono prima i
contesti e poi la persona. La persona deve essere aiutata a vederle le situazioni di mutamento
contestuale, senza averne paura. Deve essere aiutata a fidarsi, e spesso questa è la cosa più
difficile.
Ora vedete su questo punto, ho fatto in tanti anni un’esperienza significativa soprattutto con le
comunità terapeutiche per tossicodipendenti che sono un’esperienza abbastanza straordinaria.
Con Saman, abbiamo cominciato nel ’95 e sono passati tanti anni. L’accordo che io feci con
Saman quando ho cominciato a lavorare con loro, era di affiancare agli educatori dentro
ognuna delle comunità terapeutiche degli psicoterapeuti che avevano un loro referente, in parte
io, in parte altre persone in altre città dove c’è Saman, per avere una supervisione sul loro
lavoro. Avevamo stabilito un principio, che laddove sul programma c’era differenza di idea fra
il responsabile di comunità, quindi il capo educatore, e i referenti terapeutici, quindi glipsicoterapeuti, ci fosse una mediazione fatta con me come direttore scientifico di Saman.
Avevamo stabilito, in qualche modo, una pari dignità degli psicoterapeuti con i loro
ragionamenti e degli educatori con i loro ragionamenti, che veniva appianata discutendo nelle
situazioni in cui c’era conflitto su come muoversi. Dopodiché abbiamo immaginato un
percorso dove le supervisioni venivano fatte in equipe, cioè tutti insieme da psicoterapeuti
esterni. Adesso 15 anni di lavoro sono tanti, e le risorse psicoterapeutiche degli educatori
tradizionali di Saman sono straordinarie. Loro non hanno fatto psicoterapia, non hanno fatto
una formazione psicoterapeutica, l’hanno imparata discutendo; certamente anche gli
psicoterapeuti, che hanno lavorato con loro, hanno imparato dagli educatori un numero
straordinario di cose che non sapevano. Allora che cos’è il senso di questa cosa? Il senso di
questa cosa è che responsabilizzare progressivamente una persona, mentre la si accoglie
affettuosamente è un’operazione terapeutica di grandissima potenzialità. Nella comunità
accade questo attraverso una dialettica. Perché vedete, può capitare che il responsabile di
comunità dia una punizione perché c’è stata un’infrazione comportamentale, lo psicoterapeuta
che fa, ascolta la reazione alla punizione. L’utente, il ragazzo o la ragazza, va lì e dice
“Quell’educatore mi ha dato questa punizione ingiusta, lui non capisce, non è possibile non
capisce che cos’è per me questo” e fa tutta la sua sparata. Il terapeuta accoglie, ascolta e poi
cerca di restituire un discorso in cui dice “Si, tu hai le tue regioni, ma anche lui ha le sue.
Perché poi c’è qualche cosa che è la cornice, il gruppo, lo stare insieme. Questa è una realtà a
cui in qualche modo anche tu devi riuscire a partecipare e ad andare dentro”. Vedete, si
ricostituisce una situazione di una famiglia in cui l’istanza normativa e l’istanza di
accoglimento e di ascolto possono essere alternativamente giocate di più, dall’uno o dall’altro
dei due genitori, nel rispetto delle regole che vengono date, ma nel rispetto anche del fatto che
non sempre la regola e la sanzione collegata alla regola può essere compresa; sapendo che è
molto più importante che venga compresa, che non il fatto che venga regolarmente obbedita.
Questo, secondo me, è il punto su cui si esercita oggi il principio più forte dell’azione
terapeutica in tutte queste situazioni.
La capacità degli psicoterapeuti di “comprendere” si mette al servizio dell’equipe. Voglio dire
che, alla fine, in una rete che si occupa di un minore, non è importante che ci sia lo
psicoterapeuta del minore, ci deve essere la competenza psicoterapeutica che circola
nell’equipe, che permette di prendere decisioni e posizioni che sono tali da assicurare al minore
quel livello di comprensione, di vicinanza, di sentirsi con che è fondamentale per lui. Molte
volte, secondo me, non è neppure opportuno che il minore abbia un terapeuta fuori dalla
comunità. Io penso che in molti casi quello che è importante è che lo psicoterapeuta faccia
parte dell’equipe che lavora e possa suggerire all’operatore che è più vicino al minore alcune
risposte. Insomma, che ci si trovi in termini di rete ad utilizzare le competenze e il sapere
psicoterapeutico, non a considerare la psicoterapia qualcosa che sta lì e che è uno dei pezzi del
lavoro terapeutico. Se volete, utilizzando un’immagine, la competenza terapeutica dovrebbe
essere un po’ come il sale nella minestra: senza sale non è buona la minestra, non è che uno si
mette a mangiare solo il sale, insomma non è utile mangiare separatamente la minestra e il sale.
Questo è quello che l’esperienza di questi anni mi ha insegnato.
In secondo luogo, quello che è molto importante che si riesca a capire e a riflettere bene, è che
molti degli adolescenti che arrivano al momento della comunità o del centro diurno o altro,
sono adolescenti che hanno anche una famiglia e che questa famiglia resta con i suoi modi di
muoversi, di porsi, nelle diverse situazioni di rapporto con questi adolescenti.
Melanie Klein (1932) ha scritto una cosa bellissima su questo, nella sua psicoanalisi dei
bambini. Una cosa che la faceva sempre riflettere era come, mesi e mesi di lavoro
psicoterapeutico paziente - sapete che lei vedeva i suoi ragazzini anche tre quattro volte a
settimana - a cui hai dedicato tantissimo tempo, tantissima passione, possono essere distrutti in
un attimo da un aggrottarsi degli occhi della madre. Adesso può essere anche comodo, però è
vero… perché, bene o male, questi genitori che sono fuori dalla comunità e che magari lorovedono solo per poco, restano fondamentali. Allora noi con Saman, anche con persone più
adulte, abbiamo messo come regola di ingaggio, cioè come regola per accettare i pazienti in
comunità, il fatto che la loro famiglia, potremmo usare un linguaggio poliziesco, “si
costituisca” per un lavoro terapeutico; proponiamo l’idea che, mentre loro cambiano in
comunità, anche gli altri cambiano a casa, anche perché sennò a che serve quel cambiamento ?
Ecco su questo ci si può mettere l’accento un po’ più forte, un po’ meno forte a seconda delle
situazioni, però questa è una cosa importante. Noi non possiamo immaginare e su questo i
terapeuti familiari hanno ragione e io lo rivendico con forza, la terapia non può essere
“rimettere a posto”, cioè non è un meccanico a cui dici “ti porto il figlio, facciamo un controllo
e poi me lo ridai così io continuo e vado avanti”. I comportamenti del figlio sono da rivedere
all’interno di sequenze comunicative che lui ha con i familiari più significativi, il papà, la
mamma, i fratelli; quel che sia, ogni volta c’è da rifletterci bene sopra. Allora questa, secondo
me, se la comunità terapeutica la sceglie come regola d’ingaggio, è una cosa molto importante.
Io credo che questo valga anche per quelli che lavorano in contatto con il minorile penale.
Devo dire che oggi, sentendo la Dottoressa Spagnoletti, capisco quanto il lavoro del magistrato
sia difficile, però credo che noi abbiamo un codice penale minorile straordinario, perché è una
cosa bella quella che si può fare con i nostri minori. Penso a quello che succede in altri paesi in
cui non è assolutamente così. Noi abbiamo la possibilità di progettare con il minore con questa
straordinaria “messa alla prova” all’interno della quale si può fare un progetto importante.
Secondo me, non è tanto importante il fatto che la si chiami “limitazione della libertà
personale”, ma se la comunità terapeutica sta dentro a un progetto di messa alla prova in cui si
coinvolgono terapeuticamente i familiari, quando è possibile farlo chiaramente, questo è uno
strumento. Forse alla parola “messa alla prova” dovremmo aggiungere l’idea che si tratta di un
provvedimento finalizzato ad un lavoro terapeutico, cioè un cambiamento della situazione, non
della persona. “Messa alla prova” è una brutta espressione, come dire “vediamo quanto sei
tarato”, ma se si intende “messa alla prova” in termini di “ti diamo un’occasione e lavoriamo
con te affinché questa occasione ti sia utile” diventa anche un termine interessante. Però la
progettualità che al giudice viene suggerita dall’equipe che si occupa della situazione, deve
comprendere una serie di aspetti che sono quelli della terapia di questo ragazzo, che può
prevedere il suo stare in una comunità, che può prevedere il suo frequentare un centro diurno e
deve prevedere anche la sua attività presso una struttura in cui fa un lavoro socialmente utile, la
sua frequenza alla scuola, quel che sia; ma dentro a questo, ci deve essere il lavoro con la
famiglia, altrimenti è difficile che questa persona possa cambiare solo lei; può capitare perché
abbiamo visto che si guarisce spontaneamente in tante situazioni, a volte la paura che uno si è
preso lo fa tornare indietro. Però nelle situazioni un po’ più complesse, l’intervento terapeutico
deve tener conto dei fattori che sono rilevanti per l’equilibrio psicologico e per il recupero della
possibilità e della capacità di crescere. Queste sono le sfide che abbiamo davanti.
Aggiungo una piccola osservazione in merito a ciò che è stato detto oggi dalla dottoressa
Spagnoletti. Io sto facendo un lavoro di supervisione con un gruppo di psicoterapeute che
prepara dei progetti terapeutici per il Tribunale. Consiglio sempre a loro di dire “Io sono il
terapeuta e dico questo, ma quello che decide è il giudice”. Perché penso che il giudice che
decide entro certi limiti, che sono quelli scanditi dalla scrittura della legge; la dottoressa
Spagnoletti l’ha detto benissimo stamattina. Io credo che ci sono tante situazioni in cui i tempi
non coincidono esattamente e allora il ragazzo deve capire che la realtà è questa. La realtà della
vita non è una realtà in cui le cose si accomodano secondo i tuoi tempi. Il giudice decide e “tu
devi adeguarti, anche se la cosa non ti sembra completamente giusta, ne puoi discutere, ma
devi discuterla nelle sedi giuste” e il terapeuta deve aiutare a comprendere che ci sono nella
vita delle realtà a cui ci si deve adattare, cioè il rispetto della norma, dell’istituzione come
anche dei genitori, dei compagni, dell’insegnante, un domani dei datori di lavoro, del
compagno o della compagna. Il rispetto è un qualche cosa che si basa sull’idea per cui, tante
volte, io penso di aver ragione però abbozzo, perché è così; se non sono capace di abbozzare,non sono capace di vivere; poi c’è sempre il tempo per dire le cose che riteniamo giuste, per
rimettere in discussione. Non si può pensare di avere tutto e subito. Questo tenere, il giudice, il
tribunale, la giustizia, il provvedimento un po’ fuori dal setting terapeutico. Vedere il setting
terapeutico, come un luogo in cui, anche la comunità terapeutica, voglio dire setting
terapeutico, intendo in senso molto lato, si riflette insieme sul fatto che gli esseri umani sono
limitati, che gli errori ci sono, ma che per vivere insieme agli altri come io voglio che gli altri
tollerino i miei errori, a volte lo pretendo perché do le mie spiegazioni, così io debbo tollerare
quello che a me sembra errore nella condotta dell’altro. Questo è un principio educativo
fondamentale: io credo che tutti cerchiamo di insegnarlo ai figli, anche se non sempre… perché
vedo, seguendo le partite di pallone, i genitori che gridano più loro contro gli altri e i ragazzini
che dicono “Papà sta’ buono, mamma sta’ buona, non ti arrabbiare”. Questo si vede anche a
scuola quando i genitori dicono al figlio che meritava un voto più alto di quello dato
dall’insegnante. Insomma è difficile perché i genitori si mantengono adolescenti fino a 50 anni,
vivono attraverso i figli l’adolescenza e tante cose, ma adesso ci perderemmo… Il principio
educativo su cui si fonda la stabilità dell’essere umano e quindi la buona crescita di un
adolescente è questo. Io credo che rispetto ai ragazzi che rischiano di più di deragliare durante
questo percorso di crescita, questo principio diventa più importante e deve essere seguito con
un’attenzione particolare.
Mi avvio alle conclusioni. Il punto è questo: che tutti coloro che si occupano del minore nella
rete debbono avere un’assoluta univocità di atteggiamenti, univocità che si raggiunge al
termine della discussione che non può essere immaginata o presunta “io faccio questo e tu ti
devi adeguare”. Univocità significa che si discute prima, come si faceva in fondo un tempo nel
partito comunista, si discuteva prima e dopo non si usciva fuori con un’altra idea. E’sempre
facile fare l’anima bella che si schiera con il minore contro gli adulti cattivi; ma al minore non
serve questo, serve qualcuno che sta con lui, con la sua sofferenza, con la sua difficoltà che lo
aiuti a trovare la strada per vivere insieme agli altri, perché altrimenti “non ci si fa”.
Io voglio dirvi che sono contento di essere qui, di aver trovato tutta questa gente che lavora in
questo campo, vi assicuro che è qualche cosa davvero di molto nuovo, che io spero che cresca,
perché questa, in fondo, è una missione della nostra generazione; far sì che questo cresca
sempre di più e che diventi qualcosa che viene come risposta a tutti i minori in difficoltà. Credo
che la percentuale non sia ancora vicina al 100%. C’è ancora molto da lavorare, perché tante di
queste esperienze non più pionieristiche - il tempo dei pionieri è finito - ancora non però
sufficientemente diffuse, diano davvero risposte a tutti quelli che ne hanno bisogno.
Grazie